Il primo congresso dell’Unione delle Camere Penali Italiane cade, come tradizione, alla “apertura dell’anno scolastico”, cioè alla ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa feriale. Il che permette di discutere dei principali temi di politica giudiziaria, prima di tutto mettendo a fuoco una scala di priorità su quelle che sono – o dovrebbero essere – le questioni più rilevanti. È però necessario evitare di cadere nella tentazione compilatoria, cioè l’indicazione di una lista della spesa (riforma costituzionale, intercettazioni, custodia cautelare, restauro della impostazione accusatoria del codice, rafforzamento del ruolo della difesa, ecc., ecc.) che annulla la riflessione politica e si trasforma in una sorta di novena garantista buona per tutte le stagioni. In effetti la carne al fuoco è tanta, basti pensare alla riforma del codice di procedura che si discuterà proprio alla riapertura, ovvero a quella della prescrizione, oltre che alla sempiterna e mai risolta questione delle intercettazioni, ma il tema più propriamente “politico” su cui occorre riflettere è quello dell’analisi della azione legislativa e di governo fin qui condotta e della interlocuzione che l’avvocatura deve mantenere.
Nel corso dell’ultimo anno il governo “del fare” ha modificato la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, ha introdotto la tenuità del fatto e messo mano alla custodia cautelare; tutte cose che, sia pure con i loro limiti, possono iscriversi nell’elenco delle novità positive. Nell’economia complessiva, però, il bilancio resta in deficit. Sull’altro piatto della bilancia stanno infatti una riforma dei reati contro la p.a. caratterizzata da un parossistico accanimento sanzionatorio, la dilatazione della già insopportabile area della prevenzione e persino il rafforzamento dell’ergastolo attraverso la (contro)riforma del giudizio abbreviato. Questo per quanto riguarda le cose fatte, ancor peggio se si vedono quelle che sono in agenda, come la riforma della prescrizione che si basa sull’illogica pretesa di risolvere il problema dei tempi dei processi rendendoli virtualmente lunghissimi, oppure le stravaganti proposte sul processo penale, alla “Dottor Stranamore”, della Commissione Gratteri. Senza dimenticare l’incombente introduzione del reato di omicidio stradale ed, all’opposto, la liquidazione di fatto di quello di tortura, ovvero l’andamento pencolante in materia di carcere che vede, accanto al varo degli Stati generali sull’esecuzione, una decisa stretta sanzionatoria, con aumenti di pena sconsiderati anche per reati comuni. Insomma, le buone intenzioni, ed anche le analisi corrette, vengono ampiamente smentite dall’azione concreta che rimane imprigionata da una sorta di timore reverenziale nei confronti di un complesso mediatico-giudiziario e di un ceto politico ampiamente dominati da una ideologia regressiva sul piano dei diritti, oltre che da uno schietto populismo penale. Ciò detto i problemi peggiori, in verità, sono altri. Il governo, con il ministro Orlando, sembra aver compreso che una delle incognite dell’universo giudiziario è il rapporto squilibrato tra i Poteri dello Stato ma, oltre alle battute ad effetto che ogni tanto Renzi piazza al fine di conquistare quella parte di elettorato cui l’invadenza delle procure sta sullo stomaco, non fa nulla, proprio nulla su questo terreno.
Certo, il ministro ha istituito una commissione per la riforma del Csm, però ha chiamato a guidarla un magistrato in pensione e l’ha inzeppata di suoi colleghi in servizio, per di più dandogli compiti angusti. Se non è “l’auto riforma”, unica parola che l’Anm è disposta ad ascoltare quando si parla di modifiche strutturali, poco ci manca. Ciò dimostra che, anche quando è animata dalle migliori intenzioni, la politica rimane avvinta, consapevolmente o meno, ad una idea della Giustizia in cui il padrone, o comunque il maggior azionista, è proprio la magistratura. Conclusione ancor più rafforzata dalla, sbagliata e subito abortita, proposta di affidare alla Corte Costituzionale il giudizio sull’autorizzazione all’arresto dei parlamentari: una sorta di resa finale del potere legislativo che, invece di recuperare il terreno perduto dagli anni novanta sul piano della tutela delle guarentigie nei confronti del potere giudiziario, in tal modo finirebbe per certificare la propria inadeguatezza. Una inadeguatezza che in realtà la costituzione materiale postula da tempo e che la cronaca documenta in continuazione. Si pensi ai fatti di Roma, ove un intero ceto politico fa a gara per emulare la Procura invece di riflettere sulla consistenza, sociologica prima ancora che giuridica, di un fenomeno mafioso autotctono che, per stessa affermazione dei magistrati che lo attestano, prescinderebbe dalla principale caratteristica del reato previsto dall’articolo 416 bis del codice penale, cioè la forza di intimidazione e le condizioni di assoggettamento e di omertà che ne conseguono sul territorio. Trionfa una idea di legalità militarizzata dalla delega affidata a magistrati prestati alla pubblica funzione, come Cantone, ovvero direttamente alla politica, come Sabella, con la dichiarata missione di mettere sotto tutela gli stessi inaffidabili e corruttibili politici. E quando non sono magistrati il compito viene affidato direttamente ai prefetti. Il tutto, è quasi inutile rimarcarlo per l’ennesima volta, attraverso gli innaturali rapporti tra uffici di procura, circuiti investigativi e ampie fette dell’informazione, che modellano il giudizio etico dei cittadini sulla classe dirigente, o anche su altri cittadini indagati, attraverso l’occhiuto utilizzo di informazioni tratte da atti giudiziari, in certi casi neppure verificabili, si pensi al caso Crocetta. Per farla breve i protagonisti del reality show della politica giudiziaria italiota, lungi dal comprendere che in una società liberal-democratica, o semplicemente in una società ben ordinata, non è solo la magistratura a dovere essere tutelata nella propria indipendenza, continuano a mettere la testa sul ceppo della democrazia giudiziaria, che tutto è meno che democratica. Che poi questo succeda perché la classe politica è consapevole del livello non eccelso dell’ etica pubblica e della perdita di consenso in ampi strati dell’ elettorato è un dato su cui riflettere. Qui il paragone con il 1992 non pare azzardato: l’invasione di campo di allora si attuò attraverso la diretta azione giudiziaria e mediatica di “Mani Pulite” mentre oggi si afferma attraverso la delega che la politica affida direttamente alle Procure. E dico Procure perché così stanno le cose. Chi ha esperienza di vicende parlamentari sa, infatti, che l’opinione del Procuratore Capo di Roma, o di Milano, piuttosto che di quello Nazionale Antimafia, contano ben più di quella del Presidente dell’Anm, se ma i succedesse che tra le medesime vi fosse una qualche differenza, il che accade assai di rado. Attenzione, il fenomeno è compreso da molti, basti pensare alle polemiche sul processo non-processo “trattativa”, il cui dichiarato ed esclusivo intento moralizzatore ha finito per far storcere la bocca anche a giuristi non lontani dall’azione delle Procure Antimafia, oppure alle dispute sorte al momento dell’inutile deposizione di Napolitano.
Anche il ministro Orlando - come già detto - in più occasioni ha toccato questo tema ribadendo la necessità del primato della politica, ma sono rimaste solo parole. Il problema è che manca consapevolezza degli esatti termini della questione. Se così non fosse, tanto per fare un esempio concreto, le surreali discettazioni seguite ai funerali di Casamonica non avrebbero affidato alla voce isolata di Giuliano Ferrara la denuncia di un “legalismo” peloso, che traduce in movimenti di opinione i desiderata di un ufficio di Procura preparando il campo a future azioni giudiziarie di quello stesso ufficio. Proprio come già avvenuto dai tempi di “Mani Pulite” giù giù fino a Mafia Capitale. Tutto si tiene da questo punto di vista: la mancanza di terzietà dei giudici rispetto alla custodia cautelare ed alle intercettazioni, l’inesistenza di regole vere sulla gestione dell’azione penale (obbligatoria solo a chiacchiere), la pretesa di immunità dei magistrati di fronte ai loro errori, oltre che quella di dominare l’organo di governo autonomo, l’innaturale collegamento tra informazione e circuiti giudiziari, ed infine la debolezza genetica di una classe politica che recluta i suoi appartenenti nei piani bassi della società. Tutto questo garantisce la sovraesposizione del giudiziario e la sua mutazione genetica a controllore di legalità o, addirittura, di moralità; ciò che raggiunge il suo punto massimo nel momento in cui, come oggi sta avvenendo, alle regole del processo si sostituiscono le pseudo-regole dei procedimenti di prevenzione, veri e propri tritacarne dei diritti nei quali anche il controllo giurisdizionale è virtuale. Per dirla con uno slogan antico “la vera lotta è per il potere” ed allora è sui i meccanismi che rendono quello giudiziario sbilanciato e condizionante che bisogna intervenire.
Da questo punto di vista la diagnosi è semplice, il mese scorso un giurista come Sabino Cassese l’ha fotografata in un amen sul Corriere della Sera, e la riportiamo nel suo nucleo centrale ”Sproporzionato il posto che il sistema giudiziario è venuto ad occupare nella vita civile, se rapportato al suo fallimento come erogatore di giustizia”. Bisogna rimodellare i confini, questo bisogna fare prima ancora che riformare la legge sulle intercettazioni, o quella sulla custodia cautelare, oppure i codici. Bisogna fare una vera riforma di struttura i cui punti sono sempre i soliti: doppio Csm per giudici e Pm, regolamentazione dell’esercizio dell’azione penale, Alta Corte di Giustizia disciplinare per magistrati ed avvocati, limitazione dell’applicazione dei magistrati fuori dal ruolo, ineleggibilità temporanea dopo l’uscita dalla magistratura.
L’avvocatura, come nel 1992, dal canto suo deve prendere consapevolezza che esprimere preoccupazione per quel che succede non è più sufficiente ed il congresso dell’Unione delle Camere Penali è il posto giusto per farlo.
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 15:23