
Qualche tempo fa ci veniva segnalato un testo che recitava “Introduzione delle materie universitarie Scienza dell'accoglienza e Scienza del management: proposta di legge per scuole superiori di frequenza ridotta a tre giorni settimanali, gli altri giorni prevedere la frequenza on-line”. In un primo momento la proposta parve bislacca. Ormai adusi a veder spuntare corsi di studio solo per far sedere in cattedra figli d’autorevoli baroni, alti burocrati ed influentissimi magistrati. Poi il dubbio ha iniziato a serpeggiare. Forte del fatto che, dell’accoglienza ai migranti in troppi ne hanno fatto un lavoro, e non più certo un saltuario interesse da volontariato, da opera buona disinteressata.
Che non ci fosse più da scherzarci sopra ce lo ha detto una pubblicazione del Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), che da oltre quarant'anni svolge attività di studio e consulenza in vari settori della società italiana (dalla formazione al lavoro passando dall’ambiente alla cultura). La conferma su quest’ennesima trappola per i giovani a caccia di nuovi percorsi formativi c’è giunta con l’intervista del Censis alla professoressa Annarita Calabrò che, all’indomani dello storico naufragio di Lampedusa (quasi un annetto fa), ha iniziato a costruire le basi d’un master per studiare l’immigrazione e formare i giovani ad accogliere i migranti.
La polemica non vuole affatto scalfire la preparazione della professoressa Calabrò, tantomeno sottrarre autorevolezza al Censis. Ma quello del volontariato e dell’accogliere non deve affatto prefigurarsi come una svolta professionale per chi deve scegliere cosa fare dopo il liceo. Milioni di giovani potrebbero tuffarsi in quest’ambito con il piglio del Candido o col realismo del retore Pangloss: nel primo caso avremmo una miriade di bamboccioni che, a spese di mamma e papà, spenderebbero la propria esistenza in un defatigante volontariato francescano, nel secondo caso, e con varie sfumature, potrebbero spuntare manager, affaristi e piccoli Buzzi.
Certo, quando la professoressa Calabrò dice che, “L’immigrazione è un fenomeno molto complesso che coinvolge diversi aspetti della società (il lavoro, l’istruzione, la salute, solo per citarne alcuni) e che richiede a quanti sono chiamati a gestirlo conoscenze e competenze specifiche, per la realizzazione di una completa e positiva inclusione dei migranti nel nostro paese”, non sbaglia. Il problema è che oggi troppi giovani vedono nell’accoglienza (e la rete ce lo dimostra) l’unico lavoro del futuro, l’unica professione praticabile in Italia. Sono ormai noti i successi del master sull’accoglienza che la professoressa ha varato all’Università di Pavia. E ci giungono conferme che gli atenei di Roma, Napoli, Bologna, Palermo, Bari e Reggio Calabria sarebbero già pronti ai corsi di quella che parrebbe la scienza italiana del futuro, l’accoglienza.
“Abbiamo osservato in questi anni una crescente richiesta di formazione proprio da parte dei migranti stessi, - dice la Calabrò - in particolare delle donne di seconda generazione, che intendono partecipare attivamente e consapevolmente al processo della propria integrazione”.
Belle parole, ma qualcuno deve pur dire a chi s’affaccia alla formazione che il Paese (l’Italia) necessita di falegnami, tornitori, fresatori, carrozzieri, carpentieri, contadini… Che la formazione è bella ma non può essere fine a se stessa. Non è detto che i ragazzi non possano studiare ingegneria o scienze agrarie e poi saltuariamente fare volontariato (accoglienza). Anche perché si spera che l’Italia (e con lei l’Europa) non si trasformino in una enorme arca per Africa e Medio Oriente. Soprattutto che molti migranti possano tornare nei rispettivi paesi per iniziare professioni e produzioni industriali ed artigianali.
Certo secondo la Calabrò “nel corso degli anni molti studenti hanno trovato in questo modo la propria strada lavorando, oltre che nella P.A. o negli E.E.L.L., in associazioni e cooperative impegnate da anni nella progettazione o nell’azione: dall’accoglienza, alle pratiche del ricongiungimento, alla gestione delle emergenze, all’assistenza alle vittime di tratta…”.
Siamo alle solite, in Italia si scambiano le emergenze per segnali celesti (il Papa ne sa qualcosa) capaci di farci lasciare alla deriva una fabbrica che produce in cambio di due anni di volontariato in Africa. Fenomeni che, fortunatamente, non diverranno mai di massa. Diversamente volontariato ed accoglienza porterebbero a rapida estinzione la gens italica. Eppure un tempo si pensava che le uniche industrie dovessero essere turismo e manifattura italiana (made in Italy), evidentemente il forte impoverimento ci ha ridotto al rango di campeggiatori d’Europa, di campo profughi dell’Ue.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:26