
I mal di pancia giustizialisti tengono a freno i propositi di riforma dell’ordinamento penitenziario. Nessuno spazio per le aspirazioni di reinserimento dei condannati per mafia e terrorismo; uno sbarramento populista vuole i “cattivi” “cattivi per sempre”, in carcere fino alla morte. Viene da chiedersi quale spinta dovrebbe indurre un detenuto senza speranza al rimorso, alla rielaborazione del suo vissuto, al cambiamento; quale senso dovrebbe avere la "buona condotta in carcere", quando ogni anelito di libertà, ogni possibilità di godere di trattamenti premiali, sono esclusi. Ma tant’è!
Eppure, la effettività rieducativa della pena è stata posta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, quale fulcro dei criteri della delega di governo depositata il 23 dicembre 2014.
Ha ammesso, il ministro, che l’articolo 27 della Costituzione è rimasto una norma di programma mai compiutamente attuata ed ha palesato l’esigenza che il carcere, ancora un luogo carcerogeno che si traduce troppo spesso in una spinta alla recidiva, debba, invece, essere programmato quale momento costruttivo verso un concreto reinserimento del detenuto nella società civile.
Ha espresso, pertanto, la cogente esigenza di “un allineamento dell’ordinamento penitenziario agli ultimi pronunciamenti della corte costituzionale che ha più volte affermato l’illegittimità di un sistema sanzionatorio che si fondi su automatismi o preclusioni assolute”. Orlando ha sempre chiarito che massima attenzione sarebbe stata rivolta alle esigenze di sicurezza a fronte della mai sopita gravità dei fenomeni di criminalità organizzata. L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che allo stato preclude in assoluto, a chi abbia commesso determinati reati, di accedere a qualsivoglia percorso di rieducazione - salvo che collabori con la giustizia - non può, dunque, nell’idea del ministro, esser soppresso ma sussiste la concreta esigenza che se ne rivisiti il contenuto in una proiezione di legittimità costituzionale e di aderenza agli scopi della sanzione penale.
Ecco, allora, la esplicitazione di principi e criteri direttivi della legge delega tesi a restituire un senso ed una proiezione costituzionali a qualunque carcerazione: “eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo”.
Anche chi è condannato all’ergastolo ostativo (reati contemplati dall’articolo 4 bis) deve poter sperare di tornare alla vita, se è vero che nessuna carcerazione - nel rispetto della volontà dei padri costituenti e degli imperativi comunitari (Vinter c/Regno Unito) - può essere, aprioristicamente ed in astratto, sottratta alla riammissione della persona detenuta nel tessuto sociale, alla aspirazione alla libertà, alla speranza di re-stituzione.
Nessuna previsione, dunque, che ammetta i condannati per i più gravi reati a godere - sic! - dei benefici penitenziari, bensì l’inserimento nel quadro ordinamentale di una possibilità per i soggetti che abbiano, nel corso della carcerazione, dimostrato di avere proficuamente avviato una revisione critica del sé, di essere gradualmente restituiti alla vita. Una possibilità che sarebbe vagliata da operatori intramurari e magistrati di sorveglianza attraverso la capillare attività di verifica e di controllo svolta dagli organi investigativi, soltanto una “possibilità - per usare le parole del ministro - per chi ha sbagliato di reinserirsi positivamente nel contesto sociale, non commettendo nuovi reati”, cuore del percorso di studio e di approfondimento denominato: "Stati Generali dell’esecuzione penale".
Le propensioni alla attuazione della Costituzione estrinsecate dal ministro Orlando, tuttavia, hanno trovato un feroce sbarramento in chi, sventolando la polverosa bandiera della paura, ha capziosamente paventato la abrogazione tacita della pena perpetua e la rimessione in libertà di soggetti pericolosi appartenenti alle consorterie mafiose. Nulla di più falso, lo si è detto. La tensione riformatrice è nel senso di lasciare aperto uno spiraglio di emenda; di consentire a ogni uomo che abbia commesso un reato, qualunque reato, di pentirsi - pentirsi nell’animo, ricrearsi, cambiare (che è cosa assai diversa dal collaborare con la giustizia) - di dare un senso ed una concretezza ad una norma - l’articolo 27 della Costituzione - che viene radicalmente svilita dalla insuperabile previsione di morte per pena connaturata all’ergastolo ostativo. E però la paura - anche ottusa, ignorante, artificiosa, ingannevole - vince. Con una modifica della legge delega, la presidente della Commissione Giustizia, Ferranti (Pd) spazza via qualunque spinta riformatrice verso l’attuazione della Costituzione escludendo dalla revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, “i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”.
La modifica annienta il senso del progetto di cambiamento semplicemente precludendo il cambiamento. Oggi i pochi condannati all’ergastolo per reati diversi da mafia e terrorismo accedono già - in caso di positivo compimento del personale percorso di rieducazione intramuraria e di conforme valutazione da parte del tribunale di sorveglianza competente - al graduale reinserimento in società.
La paura vince, la Costituzione perde.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:20