In difesa di Bossi e dei   nostri diritti di libertà

Prima di prender la penna in mano ed iniziare a scrivere le riflessioni che seguiranno, ho preferito attendere. È buona regola, infatti, non esprimere mai a caldo i pensieri che si aggirano nella testa. E, tuttavia, nonostante tutta la buona volontà, non riesco proprio a comprendere quale sia il fondamento della condanna inflitta ad Umberto Bossi. Che Bossi non sia simpatico a nessuno (fatta eccezione per pochi leghisti nostalgici dei tempi che furono) è un dato di fatto. Circostanza, questa, che semplifica, e di molto, il mio discorso, visto che il banco di prova dei diritti è la loro applicazione nei confronti delle persone sgradite. È facile difendere gli amici; molto meno agevole è chiedere giustizia per gli avversari.

Vediamo come stanno le cose. Umberto Bossi è stato condannato per vilipendio aggravato dalla finalità di discriminazione razziale nei confronti del capo dello Stato, definito “terún”. Il cielo è testimone del fatto che io, da sempre, mi batto per l’abrogazione dei cosiddetti reati di opinione, vilipendio compreso, e che considero pericolosa per la libertà di espressione del pensiero la punizione di tesi storiche o scientifiche. Come ho sempre detto, il negazionismo va deriso, non incarcerato.

Nel caso di Bossi, tuttavia, mi interessa una questione diversa, ancora più pericolosa per la libertà di noi tutti. La qualificazione in termini spregiativi delle origini del Presidente della Repubblica (di allora, ovviamente: del 2011) è stata considerata espressione discriminatoria, punibile ai sensi della Legge Mancino. Questo mi piace ancor meno del vilipendio.

Abbiamo preso una brutta china, per reagire a sempre più diffusi fenomeni di intolleranza. La Convenzione di New York del 1966 - madre di tutte le norme antidiscriminatorie - partiva dalla esigenza di scongiurare il ripetersi di fatti gravissimi e mirava a ristabilire una pari dignita traverso la protezione penale. Era giusta e condivisibile. Altrettanto giusta e condivisibile - con qualche distinguo - la legge, italiana questa volta, del 1975, la quale, ispirandosi a quei principi, allineava il nostro ordinamento alla convenzione. Poi è arrivata la Legge Mancino (siamo al 1993), più volte modificata. Infine, siamo alle odierne interpretazioni. Ci sono norme che risentono dei mutati costumi. Nel 1940, una donna in topless sarebbe stata incriminata per atti osceni in luogo pubblico. Oggi, nessuno ci fa più caso. I costumi modificano la sostanza dei precetti penali, a volte.

Ci sono norme, invece, che risentono del mutato quadro politico. Oggi va per la maggiore l’intransigenza verso ogni manifestazione verbale a sfondo razziale politicamente scorretta, ironica o satirica che sia. Questo non va bene. Prima di tutto non va bene sul piano giuridico, perché il fattore di condizionamento dell'area del precetto è discutibile e non può essere equiparato alla consuetudine (in questo consistono i costumi consolidati). Non va bene, inoltre, neppure dal punto di vista della giustizia sostanziale, perché traduce in stigma giudiziario la riprovazione morale (o estetica) nei confronti di semplici dichiarazioni.

Non sappiamo più distinguere tra ciò che è ineducato o sconveniente e ciò che invece è propaganda razzista e discriminatoria. Bossi non piacerà a molti di voi, lo so. Ma io sto dalla sua parte e credo che dovremmo farlo tutti. Nel nostro interesse, prima di tutto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:30