Ripubblichiamo volentieri la recensione che Valter Vecellio ha scritto lo scorso agosto sul libro di Michel Mikaelian “Haigaz chiamava: Mikael...Mikael... Armenia 1915. Una testimonianza” (Libriliberi editore). Il testo è stato presentato ieri sera presso il Centro Ebraico Italiano “il Pitigliani” da Alessandro Cecchi Paone alla presenza di Aldo Luperini, Claudio Vercelli e Alessandro Litta Modignani.
Per capire cosa significa la disperazione (e l’orrore) che sono in quel grido strozzato, “Mikael... Mikael...” evocato nel libro, si deve andare alla pagina 63, capitolo 17. Ma il lettore non abbia fretta di andarci, non c’è bisogno: non è un poliziesco dove l’autore gioca a rimpiattino con chi legge e dissemina tracce qua e là ben occultate, per vedere chi dà scacco matto e scopre il colpevole. Qui no. Qui c’è solo da aver pazienza; sopportare che pagina dopo pagina il cuore ti si stringa per la pena: lo devi decidere davvero che vuoi andare avanti nella lettura, conoscere un orrore che si dipana pagina dopo pagina: una sofferenza reale, una persecuzione subìta e patita, senza scopo o ragione, come del resto sono tutte le persecuzioni e le sofferenze.
“Mikael...Mikael...” è un’invocazione, un urlo disperato; come se ne possa sopravvivere è un mistero. A chi scrive fa pensare a quel non meno disperato e disperante “Elì, Elì, lemà sabactàni?” che si dice sia stato pronunciato da un Figlio che non sa capacitarsi del perché il Padre lo condanna ad un martirio così doloroso ed atroce. Che padre può mai essere? E come si fa a parlare di “amore”?
Qui il martirio, l’orrore, non sono imposti da un padre a un figlio; qui è un fratello verso/contro un fratello. Non ha perché, tutto quello che porta a quel disperato “Mikael... Mikael...”, o meglio: a voler inforcare gli occhiali della real-politik, della contabilità dei diversi averi, dell'“essere” che si trasforma in potere, forse sì: un perverso perché, un’abominevole logica, la si può individuare. Come la si può individuare, in tempi a noi più vicini, in Tibet, in Cecenia, in quelle insanguinate lande che corrono tra l’Iraq e la Libia; in Messico... e prima ancora in Cambogia, Vietnam, nella Cina di Mao e nell’Unione Sovietica di Stalin; in Centro e Sudamerica, dove non si deve dimenticare che nel “giardino di casa” dello Stato più democratico del mondo c’era un certo tipo di Cile, un certo tipo di Argentina, un certo tipo di Brasile e Paraguay...; e poi, ancora: El Salvador, il Guatemala, Panama... Milioni di croci, per quelle banane, per quegli ananas.
Torniamo a Mikael, paradigma dell’orrore ignorato solo perché consapevolmente si vuole voltare la testa. Nessuno può dire, a proposito delle persecuzioni e dei massacri subìti e patiti dagli armeni da parte dei turchi: “Non sapevo, lo ignoravo”. L'ignoranza non è un qualcosa che assolve, è comunque una colpa. Qui più che mai. Perché si sapeva e si poteva sapere; come si sapeva e si poteva sapere degli ebrei, dei Rom e di tutti quei “diversi” perseguitati e sterminati perché considerati “perversi”.
Alessandro Litta Modignani che ha curato questa tremenda testimonianza (cento pagine appena, ma che fatica, che oppressione, leggerle; ma non sottraetevi a questa fatica, a questa oppressione: conoscere, sapere, è un dovere), pubblicata da Libriliberi (16 euro, postfazione di David Meghnagi), ci racconta che il protagonista di questa storia “era un uomo semplice e mite”. In famiglia lo chiamavano zio, era “un uomo di buona cultura, un medico autorevole e stimato, ma non un vero intellettuale, sicuramente non uno scrittore... fino all'ultimo restò un tipico francese benpensante moderato, convinto sostenitore del generale De Gaulle e del suo partito conservastore. Fu marito, padre, nonno esemplare...”.
Questo libro, dunque? Una testimonianza, in prima persona; raccolta e curata da Litta Modignani. “Nel centenario del genocidio armeno - annota - sono fiero di consegnare al pubblico italiano la dolorosa vicenda di Mikaelian, nella consapevolezza che anche questo libro potrà fornire il suo contributo alla conoscenza e all’affermazione della verità”.
Non ha avuto vita facile, lo spiega bene Meghnagi: “Per non impazzire, Mikaelian aveva messo per iscritto le esperienze patite con la speranza di poterle un giorno renderle pubbliche. Approfittando delle 'lunghe notti invernali' a Harput, l’antica città armena, l’autore aveva redatto un manoscritto di 300 pagine in cui aveva ricostruito la sua vicenda personale e storica... Sfortunatamente il manoscritto andò perduto nelle 'notti del settembre 1922', quando era venuto il momento di conquistare 'la libertà a ogni costo'. Con la morte nel cuore, Michel sogna di rimettere per iscritto le memorie. A Beirut, e poi in Etiopia, dov’era inviato come ufficiale medico dell’esercito francese, tenta di ricostruire i frammenti di un’esistenza spezzata, mettendoli di nuovo per iscritto, in un libro con una dedica straziante alla memoria della madre...”.
Ora c’è, quel memoriale. Ringraziamolo Litta Modignani che lo ha curato. È un racconto, una triste epopea costituita da sofferenze, crudeltà, dolore. Da leggere e da meditare, ogni pagina: quelle dove la piccola bimba della zia, sorella più giovane della mamma, muore di fame e di stenti, “aveva due mesi, due mesi di sofferenze. Il suo corpicino era scheletrico. Scavare una tomba nella sabbia in riva al fiume e seppellirla non fu, lo devo ammettere, un compito troppo gravoso. Non piangemmo per questo distacco. Eppure l’amavamo...”. La pagina dove si racconta della giovane donna agonizzante, che non ha lacrime per la morte della madre: “Perchè mai dovrei piangere, adesso che mia madre, morendo, è riuscita a scappare a tutte le odiose torture dei turchi? Io sola conosco la sofferenza che ha dovuto sopportare... centinaia di turchi e di curdi si sono serviti di me... come se io fossi una donna pubblica, per mesi... facevano quelle cose ignobili come animali, e sempre alla presenza di mia madre...”. La pagina dove le ragazze, fiere e disperate, preferiscono sfracellarsi da un ponte, piuttosto che vivere una vita da schiava...
“Cristiani in terra musulmana, ridotti per secoli a una condizione di dhimmi, popoli dominati e sconfitti, gli armeni - annota Meghnagi - avevano guardato al processo di modernizzazione dell’Impero ottomano e agli editti di emancipazione come ad una possibile nuova Era di libertà. Fu una grande illusione”.
Sì, una grande illusione e una grave colpa di tutte quelle nazioni e quei popoli, quelle coscienze che non seppero, non vollero muovere un dito, levare una voce, in loro favore. Come spesso è accaduto, e tuttora accade, si preferisce voltare la testa, chiudere occhi, bocca e orecchie.
Non ne avrà male, Litta Modignani, che da queste vicende è personalmente toccato e coinvolto, e che sappiamo su questi temi particolarmente sensibile. Ne ricava, tra le molte cose pur condivisibili, che la Turchia – non solo quella delle derive di questi mesi, anche quella di anni fa – non sia pronta per far parte dell’Unione europea come molti (anche chi scrive) ritiene sia giusto, opportuno e necessario. E il “No” di Litta Modignani viene appunto motivato col fatto che la Turchia tuttora è reticente, non fa i conti con il proprio passato e la sua atroce storia, non riconosce il male fatto agli armeni, rifiuta di essere condannata, non ammette di essersi macchiata di genocidio. Invece è vero: la Turchia è colpevole di genocidio; la Turchia deve ancora fare i conti con la sua storia, riconoscere le sue colpe; e non sarà certo chi scrive a difendere un rapporto di una Commissione indipendente sulla Turchia che definisce “controproducenti e da evitare le pressioni esterne soprattutto le risoluzioni dei parlamenti esteri che definiscono gli eventi del 1915 genocidio”; con buona pace di autorevoli firmatari, ce ne si farà una ragione.
Però si è anche convinti che favorendo il processo di inclusione nell’Ue si contrasterà meglio la deriva della Turchia di Erdogan; e che aiuterà anche ad ammettere quello che oggi non si vuole riconoscere: che genocidio, persecuzione, volontà deliberata di sterminio ci furono, furono messe in essere; e bisogna riconoscerlo, scusarsene nel modo più solenne e incondizionato. Probabilmente Litta Modignani non ne sarà convinto. Questo dissenso, questa divergenza d’opinione può essere discussa. Indiscutibile invece il valore di questa testimonianza; e lo ringraziamo per averla recuperata, curata, “salvata”. La memoria di quel che è accaduto “ieri” di per sé non garantisce che l’orrore non si ripeta. Però ricordare, sapere, far sapere, è importante. Ha ragione Meghnagi quando ricorda di Scholem che all’amico Benjamin, sei mesi dopo l’ascesa di Hitler al potere, rammenta che “ogni riga pubblicata è una vittoria strappata alle potenze delle tenebre”. Con Isaia: “Shomèr ma mi-llailah?”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:22