Questione meridionale,   un caso storico-politico

In questo periodo nel dibattito pubblico e sulla grande stampa studiosi e scrittori hanno avvertito la esigenza di fornire una nuova interpretazione per capire le ragioni e i motivi della irrisolta questione meridionale. L’anticipazione del rapporto realizzato dalla Svimez, una istituzione che si occupa con criteri scientifici dei problemi politici ed economici del Mezzogiorno da molto tempo, ha suscitato preoccupazione e timori fondati per la sorte della metà della popolazione del nostro Paese.

In particolare alcuni studiosi, che hanno letto parte del rapporto curato dalla Svimez, hanno tratto la conclusione, sconfortante e molto grave, che il Mezzogiorno negli ultimi anni, dal 2000 fino al 2013, avrebbe avuto un livello di crescita economicamente pari alla metà della economia Greca, Paese sull’orlo del default. Inoltre, attraverso un suo polemico intervento, lo scrittore Roberto Saviano, indirizzando con una lettera aperta le sue parole intrise di amarezza e disincanto al Premier Matteo Renzi, ha sostenuto che perfino per le mafie, oramai, non è vantaggioso investire i loro capitali, frutto di attività illecite, nella inesistente economia del Mezzogiorno.

Il confronto analogico tra la Grecia e il Mezzogiorno, come ha notato in un suo documentato articolo Luca Ricolfi su Il Sole 24 Ore di domenica scorsa, pur essendo ragionevole, deve tenere conto di alcune diversità esistenti tra queste due realtà economiche. In primo luogo, non è solo il Mezzogiorno che ha perduto parti consistenti della propria ricchezza dopo la crisi economica, la cui origine risale al 2007. L’Italia nel suo insieme, in seguito alla crisi economica, sia quella del centro-nord, sia l’area del Mezzogiorno, dal 2008 ha perduto molti e rilevanti punti del proprio Prodotto interno lordo.

In ogni caso è indubbio, e questo è un dato grave e che non si può ignorare, che il Mezzogiorno ha e possiede un livello di crescita che corrisponde in termini quantitativi alla metà di quello presente nelle regioni del centro-nord. I punti di somiglianza tra il Mezzogiorno e la Grecia, in ogni caso, esistono e sono innumerevoli: economia sommersa, elevata evasione fiscale, la consuetudine nefasta volta a non rispettare le regole e la legalità, l’inefficienza della macchina dello Stato, la diffusa e tollerata corruzione. Tuttavia questo confronto analogico con la Grecia, pur avendo un senso e risultando suggestivo, non deve distogliere l’attenzione dalla specifica situazione che vi è nella vita politica e economica del Mezzogiorno d’Italia.

Ovviamente mai come in questo caso è necessario deplorare e condannare l’atteggiamento di chi fra la classe dirigente meridionale e la sua più avvertita pubblica opinione cede alla retorica del vittimismo, la nefasta cultura del piagnisteo, quasi che l’abbandono del Sud al suo destino di miseria e marginalità sia da attribuire a colpe e responsabilità esclusivamente esterne. Diversamente, se permane in modo preoccupante il sottosviluppo della economia meridionale, se non è stato possibile modernizzare la burocrazia, la Pubblica amministrazione e la giustizia civile delle regioni del Meridione, se gli occupati nell’economia produttiva sono una esigua minoranza dei cittadini meridionali, la responsabilità è in modo indubitabile delle classi dirigenti meridionali. Mai come in questo caso è giusto respingere la cultura del piagnisteo, per consentire a chi ha colpe storiche, di fronte ai cittadini onesti del Meridione, di autoassolversi.

Se il resto del nostro Paese, nell’area del centro-nord per sempio, è più ordinato e meglio governato, vuol dire che al Sud vi è un rapporto di collusione e contiguità anomalo, sterile e improduttivo tra la pubblica opinione e una classe dirigente priva di idee e incapace di esprimere una visione audace e innovativa per avviare e favorire la modernizzazione. Certo, vi sono state anche politiche sbagliate che hanno avuto un carattere prevalentemente assistenzialistico da parte dello Stato centrale durante la storia repubblicana, si pensi alla dissipazione del pubblico denaro mediante la Cassa del Mezzogiorno e l’intervento straordinario.

Tuttavia, come ha notato in un suo lucido intervento uno studioso come Giuseppe De Rita, anche l’uso dei fondo europei, sia quelli strutturali sia quelli diretti, spesso ha avuto un carattere clientelare ed elettorale, contrario alle esigenze di modernizzazione e di cambiamento che vi sono nel Mezzogiorno. Mai come in questo momento, ciò che colpisce di più non è soltanto la indifferenza e il silenzio della politica nazionale sulla situazione drammatica in cui il Sud Italia è precipitato, avvitandosi per la sua bassa crescita su se stesso e inducendo i suoi cittadini migliori ad emigrare altrove, ma l’inettitudine della classe dirigente meridionale.

Come ha fatto notare Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di domenica scorsa, le classi dirigenti meridionali dovrebbero ricordare che lo Stato non è solo la istituzione che fornisce risorse pubbliche, ma il fondamento della società che si basa sulla legalità, sul rispetto dei diritti e dei doveri, sul rifiuto netto e inequivocabile della logica dei clan e del dominio degli interessi particolari a danno di quelli generali, sulla condanna del clientelismo e della raccomandazione a danno del merito. Questo impone, secondo questa acuta e lucida analisi di Galli della Loggia, una riflessione sui motivi per i quali la questione meridionale è scomparsa dal dibattito pubblico.

Con la fine della Prima Repubblica, secondo questa analisi, e l’esaurimento delle culture politiche del Novecento, di cui i partiti di massa erano espressione, per effetto anche del vincolo esterno rappresentato dalla edificazione della Unione europea, è iniziato un processo di decomposizione dello Stato unitario, sorto in seguito al Risorgimento nell’Ottocento. Con l’eclisse progressiva e ineluttabile dello Stato unitario, insidiato dalla esaltazione del decentramento del potere e dal trionfo della retorica della privatizzazione, la questione meridionale ha perduto la sua storica rilevanza. Infatti la questione meridionale, come ha notato giustamente Galli della Loggia, è stata da sempre un problema fondamentale dello Stato unitario risorgimentale. In tutte le fasi e vicende dello Stato unitario ogni leader ha avuto un riferimento culturale preciso per dare soluzione alla questione meridionale: Mussolini, il meridionalismo degli intellettuali de “La Voce”, la rivista di cultura nata a Firenze, quello di Nitti; De Gasperi, il pensiero popolare di Luigi Sturzo; Togliatti, piemontese, la linea filosofica emersa dalle riflessioni di Gramsci.

In questo momento, se si vuole scongiurare il rischio che il futuro del Mezzogiorno sia quello della progressiva marginalità e miseria irrimediabile, e il cui territorio sia condannato alla desertificazione e all’abbandono, occorre ricostruire lo Stato, ristabilire condizioni di legalità in tutto il Mezzogiorno, restaurare la cultura delle regole e della responsabilità delle classi dirigenti, senza le quali è impensabile ogni politica di modernizzazione. Come ha affermato il giornalista Pietro Mancini in un suo pregevole commento apparso nei giorni scorsi su “L’Opinione”, è dovere della politica nazionale favorire la formazione di una nuova e competente classe dirigente nel Sud Italia, seria e responsabile.

 

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:25