
Nel dibattito pubblico del nostro Paese si è riaperta la discussione e il confronto politico intorno al rapporto tra mafia e antimafia. Proprio in questi giorni in cui ricorre il ventitreesimo anniversario dell’eccidio di Via D’Amelio, la strage voluta dalla mafia con cui vennero assassinati il procuratore Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. La polemica politica è stata provocata e alimentata da una presunta intercettazione nel corso della quale Matteo Tutino, chirurgo e medico personale di Rosario Crocetta, governatore della Sicilia, avrebbe invitato e esortato Crocetta a rimuovere dall’assessorato alla sanità Lucia Borsellino, figlia del giudice ucciso dalla mafia, eliminandola dalla scena pubblica così com’era accaduto a suo padre.
L’esistenza di questa intercettazione, che conterrebbe la frase offensiva e lesiva della dignità e della memoria del magistrato che ha sacrificato la sua vita in nome della legalità, data per certa in base ad una notizia pubblicata sul settimanale “l’Espresso”, è stata smentita dalla procura di Palermo. In ogni caso è importante descrivere il contesto in cui i fatti devono essere collocati per comprendere quanto sta accadendo in Sicilia. È in corso un’inchiesta della procura di Palermo, la quale ha avviato un’indagine sulla gestione della sanità nella Regione Siciliana.
In seguito sono stati sottoposti ad indagine e accusati di reati gravissimi, truffa ai danni del sistema sanitario regionale siciliano, sia Matteo Tutino che Giacomo Sampieri, quest’ultimo nominato da Crocetta commissario di Villa Sofia, una struttura ospedaliera tra le più importanti dell’isola. Pare e come risulta dalla indagini in corso al vaglio degli inquirenti, e per queste persone deve valere come vuole e impone la cultura garantista il principio della presunzione di innocenza, che sia Tutino, medico di Crocetta e posto agli arresti domiciliari, che Sampieri avessero un rapporto intimo e anomalo con il governatore siciliano, tanto da influenzarne le scelte tecniche in riferimento alla gestione e al governo delle strutture sanitarie della regione.
Nella giornata di sabato scorso, alla presenza delle autorità e del capo dello Stato Sergio Mattarella, Manfredi Borsellino, figlio del giudice assassinato e fratello di Lucia Borsellino (ex assessore che si è dimessa dalla carica a fine giugno), nella sede del Palazzo di Giustizia dove si commemorava l’eccidio di via d’Amelio ha pronunciato un discorso dai toni netti e chiari sostenendo che sua sorella ha vissuto un calvario simile a quello del padre. Senza infingimenti e con la sincerità e la serenità di chi nulla ha da temere, Manfredi Borsellino (commissario di polizia a Cefalù) nel suo discorso ha descritto il sistema di potere che ha consentito nel tempo che si formassero collusioni, silenzi e contiguità, ad ogni livello, a causa dei quali il malaffare sarebbe riuscito a penetrare nella sanità siciliana impedendo alla sorella di avviare e attuare la bonifica e l’azione di risanamento morale e politica pretesa dai siciliani onesti.
Inoltre ha fatto presente che sua sorella si è trovata ad agire in un clima di ostilità e offese personali che l’hanno costretta ad arrendersi e a rinunciare alla sua azione politica rassegnando le dimissioni. Come ha notato Giovanni Bianconi sul “Corriere della Sera”, mai come in questo caso è necessario ripensare alle analisi lucide e intelligenti del grande scrittore Leonardo Sciascia, il quale, recensendo un libro nel lontano 1987 sul periodo in cui in Sicilia nell’epoca fascista il prefetto Mori tentò di liberare l’isola dalla presenza inquinante del potere mafioso, coniò e invento la famosa frase sui professionisti della antimafia.
Questa vicenda politica e giudiziaria siciliana, in cui è coinvolto il governatore Crocetta che rischia di essere travolto dagli sviluppi che avrà e che, per il momento, ha escluso le dimissioni dalla carica che ricopre, dimostra che dietro e all’ombra delle persone che inalberano i vessilli e le icone dell’antimafia spesso si annidano interessi inconfessabili e oscure ed opache trame di potere. Mai come in questo momento è necessario delineare una netta e chiara distinzione tra la cultura della legalità, l’autentica pratica dell’antimafia e quella che è stata definita efficacemente l’antimafia di facciata, in cui si mescolano i riti delle cerimonie ufficiali con il linguaggio retorico e vuoto della commemorazioni pubbliche.
Sciascia quando scrisse quel suo articolo, al centro d’infinite polemiche, volle porre una questione di metodo esigendo che le regole non fossero raggirate ma riscritte per essere rispettate in nome di una cultura del garantismo e del rispetto dello stato di diritto in cui credeva, da illuminista, in modo profondo. Se il suo suggerimento fosse stato accolto e seguito Giovanni Falcone sarebbe stato nominato, come ha ricordato Giovanni Biancone, capo del pool antimafia e messo in condizione di proseguire la sua azione contro la mafia. Proprio la polemica tra mafia e antimafia, la retorica di facciata che sempre più domina la vita pubblica e la constatazione che il governo guidato da Crocetta in Sicilia non è riuscito a segnare una vera e reale discontinuità con chi lo ha preceduto, malgrado lo stile di governo improntato alla volontà ribadita in toni enfatici e puramente declamatori di cambiare tutto, impongono una riflessione sulla qualità della classe dirigente siciliana e meridionale.
Sia i governi di centro destra che quelli di centro sinistra nelle regioni meridionali, soffocate e oppresse dalla presenza del fenomeno criminale, non riescono più ad agire per avviare una necessaria e non più rinviabile politica di modernizzazione. Un intellettuale lucido e capace di ragionare in modo libero come Giuseppe Calasso, ogni domenica nel “Corriere del Mezzogiorno”, indica con toni dolenti e pieni di amarezza che la questione meridionale è sparita dal dibattito pubblico. Esiste un modo intelligente per non ignorare la lezione morale e di vita di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, che ebbero la capacità professionale di condurre le inchieste per istruire il maxi processo e fecero condannare negli anni ottanta i principali esponenti di cosa nostra, sementendo e dimostrando che era falso è infondato il mito della invincibilità della mafia.
Questo consiste nel favorire una seria riflessione sui motivi storici e culturali che impediscono al sud, e non solo alla Sicilia, la formazione di una classe dirigente seria, responsabile, competente e in grado di agire per sradicare il malcostume mafioso che si annida nei gangli dello Stato e dell’apparato pubblico. Per cambiare in modo radicale e profondo il meridione è necessario sconfiggere la mentalità mafiosa che disprezza la legalità ed ignora i principi e le regole dello stato di diritto, tanto caro al grande scrittore Leonardo Sciascia.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:32