Renzi sogna il triplete

Ogni problema, anche il più tragico, offre nuove possibilità e opportunità. Così ragiona il buon politico repubblicano, di oggi come di ieri. Così il premier Matteo Renzi ha osservato il caso dell’Urbe che non ama ma che ambisce in quanto sede del Governo. Il disastro in corso gli suggerisce in testa un’idea meravigliosa, una cosa mai tentata da nessuno, che può dettare la sua fine come il trionfo. Quando c’è stata la prima retata nella Capitale, Renzi non ha frenato fremiti di giubilo.

Il suo sindaco, eletto con l’amato metodo delle Primarie, stava per essere espulso da Roma come un corpo estraneo ma proprio le accuse di “Mafia Capitale”, abilmente dirottate sulla precedente amministrazione comunale di destra, hanno salvato l’ignaro Marino, passato da alieno fesso ma onesto. Parallelamente il premier, nonché segretario del Partito democratico, ha iniettato nel suo partito capitolino due veleni dagli effetti contrari. Il primo, lo shock anafilattico, prevede la dittatura del convertito Matteo Orfini, che per essere più romano “de Roma” veste i panni del non-ignaro, il più ricattabile di tutti, cui non è concesso un gesto che sia uno in autonomia. A lui tocca difendere il primo cittadino mentre il Governo commissaria il Giubileo.

L’altro veleno è la libertà totale di parola ed azione concessa all’anarchico statale e creativo iconoclasta, figlio di buona famiglia Pci, Fabrizio Barca, cui non è sembrato vero di poter bastonare in tutta libertà l’odiata burocrazia rutellianveltroniana, mandarina di sinistra, che da trent’anni domina Roma. Come c’era da attendersi, il Pd romano è uscito dalle attenzioni del figlio dell’economista di Enrico Berlinguer peggio che da un lebbrosario, come una fazione di malaffare, un cancro, una piaga di prevaricazioni e di malecure, un pericolo per sé e per gli altri. Il servizio d’ordine del fu Pci si è trasformato in una Ceka che ha chiuso una sezione su tre senza badare alla precedente morìa di iscrizioni. A Renzi non è dispiaciuto il massacro mediatico, utile a mettere non solo il Pd ma tutta la politica romana, compresi i membri del Governo espressi dalla Capitale, ancora di più sotto i suoi piedi.

“Mafia Capitale” però gli ha fatto perdere le elezioni regionali e comunali, in assenza del bonus dei 100mila nuovi assunti nella scuola, grazioso provvedimento che avrebbe garantito al Governo il successo procurato dalla regalìa degli 80 euro in occasione delle elezioni europee. Ora il bubbone capitolino della sconfitta elettorale renziana non finisce di aggravarsi. La seconda retata di “Mafia Capitale”, poco imputabile agli amati complotti tra Servizi segreti e Banda della Magliana, è tutta a carico delle donne e degli uomini del sindaco Ignazio Marino. Con meccanismo pavloviano, ai colpi della giustizia sono seguiti quelli degli editorialisti, dei vip e dei passanti, tutti unanimi nel disprezzare una Roma giudicata allo zenit di un degrado mai raggiunto. Anche gli ex sindaci del lascito di 18 miliardi di debito si sono messi a criticare l’alieno Marino.

La Corte dei conti ha tirato fuori 350 milioni di buco delle concessioni di produttività elargite dal Comune, proprio quelle che un anno fa Marino voleva tagliare e per le quali si prese uno sciopero. Tutto crolla al Campidoglio; mentre con raro senso dell’opportunità stanno per dare le dimissioni Silvia Scozzese, l’assessore al Bilancio che doveva garantire i conti capitolini, e Guido Improta, assessore ai Trasporti. Gli eventi, oltre lo spirito del rapporto da extraparlamentare di sinistra di Barca, non solo disegnano un Pd truffaldino da Venezia all’Emilia, a Siena ed a Roma, ma svelano il rapporto depravato, di amore-odio, vissuto intellettualmente dalla sinistra per “Mafia Capitale”.

La “gauche” che aveva odiato da subito uno dei pochi successi della destra, l’inserimento di Roma nella Costituzione, ardeva dal desiderio di cancellare la dizione di Roma Capitale, così facilmente vicina ai miti di un altro tempo. Il sindaco Marino aveva cercato di rispondere all’attesa, dichiarando guerra al pezzo comunale dei Fori Imperiali e cancellando il logo Capitale per un simbolo newyorkese. Lo scandalo, però, come una manna dal cielo, ha arpionato l’aquila di Roma Capitale dalle stelle per gettarla nel fango delle stalle. Nell’intimo la sinistra ne è stata felice, malgrado il ludibrio che ne viene all’Italia. Quel che più le importa, è l’eliminazione di qualunque gloria attorno a Roma.

Così, di colpo, è stato cancellato il lungo e lento cammino restauratore di Francesco Rutelli e Walter Veltroni, che a caro prezzo avevano ripulito la Roma sovietica dei ‘70-80; ed è venuto fuori l’antico odio sinistro per l’Urbe. Renzi capisce che se cade la Capitale crolla anche il suo Governo. Per questo sale da tutto il suo staff il desiderio di rottamare l’inquilino del Campidoglio. Monta un sogno meraviglioso, che porterebbe alle estreme conseguenze il dettato costituzionale di Roma Capitale, che prevede per il governatore dell’area metropolitana romana un posto di Governo.

Il sogno è il triplete di Renzi: dopo Pd e Palazzo Chigi, anche la corona da podestà dell’Urbe attraverso il commissariamento. Un modo elegante per liberarsi di Marino, evitare elezioni comunali ed accentrare tutti i poteri romani, magari delegando all’operatività un magistrato ferreo dimostrando di tenere duro sulla strada di un giustizialismo giacobino che non tentenna mai. Non c’è dubbio che poche voci, incantate dall’audacia, si opporrebbero. Tanto più che finora non c’è italiano in Italia che abbia realizzato il triplete.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 14:44