
Pubblichiamo volentieri uno stralcio dell’intervento dell’avvocato Maria Brucale al seminario “Ergastolo ostativo e carcere duro: umani e rieducativi?”, tenutosi all’Università degli Studi di Milano nell’ambito del corso “Diritti Fondamentali” del professor Davide Galliani. Il seminario è solo un momento di riflessione nel corpo di un prestigioso progetto di ricerca denominato “The right to hope. Life Imprisonment in the European Context” e cofinanziato dall’Unione europea, il cui più importante obiettivo è contribuire a far decollare un serio ed appassionato dibattito sull’ergastolo, coinvolgendo atenei, istituzioni e società civile.
L’ergastolo per i reati contemplati dall’art. 4 bis O.P. si espia per intero: “fine pena mai” o dicembre 9999, come si trova scritto ormai negli ordini di esecuzione della pena emessi dalle Procure. 9999, la suggestione del numero periodico che si ripete all’infinito; l’indicazione di un tempo che non può arrivare. È morte viva; assenza di aspirazione di recupero, di reinserimento o di rieducazione, è sottrazione del senso del rimorso; svilimento di ogni anelito di cambiamento; è apparenza di vita. L’ergastolo ostativo è in sé “trattamento inumano e degradante” inflitto alla persona ristretta.
La Corte Europea lo ha affermato con la sentenza “Vinter c. Regno Unito”, pubblicata in data 9 luglio 2013: la pena perpetua è legittima solo se accompagnata da regole che la rendono in concreto riducibile. È necessario che siano attivabili meccanismi di verifica sul perdurare del senso della pena. Dopo oltre 20 anni di carcere deve operare la presunzione che sia possibile che il detenuto abbia compiuto un percorso di crescita interiore e di ricostruzione della propria individualità. Lo ribadisce, la Cedu, in successive pronunce: Trabelsi c/Belgio, Hutchinson c/Regno Unito, Vasilescu c/Belgio. Non si pone in termini assoluti contro l’ergastolo; non esprime un giudizio di illegittimità della pena perpetua rispetto ai parametri dei diritti fondamentali, ma censura una sanzione che sia mutilazione definitiva di vita senza aspirazione di reinserimento e riabilitazione, che neghi il senso alla buona condotta in carcere, alla pedissequa adesione alle regole del vivere sociale, al cambiamento. Le proiezioni di tale orientamento nel diritto interno involgono immediatamente il tema dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e lo sbarramento assoluto ad oggi esistente all’accesso, per alcune categorie di reato, dunque per alcune categorie di detenuti, alle misure alternative al carcere, alla progressione trattamentale, al reinserimento graduale salvo che collaborino con la giustizia.
È un meccanismo perverso che cozza irrimediabilmente con il diritto di una persona accusata di proclamare la propria innocenza, di non essere costretta all’auto accusa anche a tutela dell’onore e del decoro, suo e dei suoi familiari, nel contesto in cui vive. Un diritto che viene radicalmente compromesso dall’obbligo ricattatore della collaborazione per accedere alla speranza, alla fruizione di un diritto costituzionale, quello ad una carcerazione proiettata non alla morte ma alla vita; senza contare l’ipotesi, se vogliamo residuale, che la persona ristretta in carcere sia davvero innocente.
E allora di cosa potrebbe accusarsi? È il caso dei sette imputati del processo denominato “Borsellino bis”, accusati da delatori falsi e calunniosi, condannati con sentenza definitiva e ristretti per 17 anni in 41 bis con un marchio infamante, terribile, poi riabilitati dalla nuova verità di altri collaboratori. Cosa potevano riferire?
Anche il percorso della cosiddetta collaborazione inesigibile è paradossalmente sbarrato per chi si trovi in carcere da innocente. E’ una strada, anch’essa, tutt’altro che agilmente percorribile. E’ onere del detenuto dimostrare di non potere aggiungere nulla, rispetto a quanto già accertato dalla autorità giudiziaria, che possa condurre alla individuazione di altri colpevoli, di altri responsabili. Per chi è ristretto quale sodale di una associazione criminale, l’esistenza in vita della associazione, perfino di una cellula di essa, preclude l’accesso all’inesigibilità. L’essere stato parte di un sodalizio genera la presunzione che si conoscano tutte le persone e le dinamiche interne.
La valvola di preclusione è spesso contenuta nei capi di imputazione dei reati in espiazione “imputato del reato di cui all’articolo 416 bis c.p., per aver fatto parte, con Tizio, Caio e Filano ed altri soggetti rimasti non identificati”. La possibilità astratta di sanare quegli spazi di verifica probatoria è, in sé, negazione della collaborazione inesigibile; e non importa che il percorso intramurario sia eccellente, che ogni opportunità trattamentale offerta sia stata perseguita e tradotta in un esito di crescita individuale e di rivisitazione critica del sé. Non importa neppure che la relazione redatta dall’equipe del carcere - area direttiva, educativa, psicologica - attesti l’avvenuto cambiamento, l’atteggiamento costruttivo, la rinnovazione del sé.
Perfino se sei già “rieducato”, solo la collaborazione con la giustizia o la certificata inesigibilità di essa, dà accesso ai benefici penitenziari. Addirittura è richiesta la condotta collaborativa su reati non in espiazione, non rientranti nell’articolo 4 bis O.P. se idealmente connessi a quelli ostativi. Il senso di tale pretesa è nel giudizio sulla persona che appare per crisma normativo meritevole del superamento dell’ostacolo (il 4 bis) solo allorché abbia collaborato, abbia reso alla giustizia tutte le informazioni indizianti di cui dispone, perfino se tali informazioni non potranno mai tradursi in una verifica giudiziaria a carico di chicchessia perché, ad esempio, il reato, assai datato nel tempo, sia, nelle more prescritto. Impossibile, peraltro, ritenere equa la presunzione assoluta che la persona ristretta sia in effetti in possesso di informazioni accusatorie a carico di altri. Che sia in grado di fornirle in modo chiaro, certo, nitido. Neppure l’autoaccusa e la dissociazione dal consesso sodale di appartenenza hanno, nel nostro ordinamento, una valenza positiva autonoma atta a scardinare i meccanismi di preclusione assoluta di cui al 4 bis.
Spiragli di speranza arrivano, oltre che dalla Corte Europea, dalle dichiarazioni del ministro Orlando al convegno al Cnr di Roma, ribadite ed arricchite in occasione degli “Stati Generali sul carcere” a Napoli: occorre eliminare le preclusioni, gli sbarramenti assoluti ed automatici, per qualunque categoria di reato, alla possibilità di essere restituiti alla società. L’articolo 27 della Costituzione - con la sua pretesa che il carcere sia reinserimento e rieducazione per il condannato - per troppo tempo inattuato; un sistema penitenziario carcerogeno che aumenta il tasso di recidiva, afferma il ministro. Carcerogeno e criminogeno, è doveroso aggiungere, perché la vita mutilata delle persone ristrette si traduce inevitabilmente in un odio cieco nei confronti dello Stato e delle Istituzioni da parte di chi, insieme ai detenuti, patisce negazioni ed afflizioni. Orlando non ritiene il 4 bis una norma da cancellare e tuttavia sembra finalmente schiudere le porte alla attenzione alla burla dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione.
Formare le coscienze è però l’imperativo prioritario; è l’ex ante di qualunque anelito di riforma. I primi provvedimenti riparatori del dopo Torreggiani, la cosiddetta liberazione anticipata straordinaria, dapprima estesa a tutti i condannati detenuti, è stata modificata in sede di conversazione, a dispregio del suo spirito ispiratore (risarcire i detenuti) per rispondere ai mal di pancia giustizialisti sfociati in una stampa aggressiva e manettara: “Usciranno boss e assassini!”. Formare la coscienze! È anche il monito del Presidente emerito, Giorgio Napolitano, intervenuto agli Stati generali sul carcere, a Napoli.
È ancora troppo forte la spinta di molti di noi di volere il cattivo marchiato e punito al di là del muto. In un momento in cui tragici episodi riconosciuti nella loro ferocia dalla Corte Europea hanno riportato l’attenzione sul reato di tortura, molti di noi sentono ancora assai più impellente il bisogno di vedere il cattivo soffrire, sconfitto e in gabbia. È in questo modo di pensare che attecchiscono regimi come il 41 bis. Un regime che mutila e mortifica, annienta e annichilisce, spezza, spegne, abbruttisce. Deprivazione sensoriale lenta, costante, programmata. La giustificazione morale è la sicurezza pubblica, lo strumento normativo è la perequazione di interessi di valenza costituzionale. Qui anche la Corte Europea si ferma.
Il comitato anti-tortura, in realtà, il 19.11.2013 si era pronunciato evidenziando l’estrema durezza del regime detentivo di rigore ma poco o nulla è cambiato da allora. Le ore “all’aperto” sono ancora due e il concetto di “aperto” assai approssimativo. La cosiddetta “aria” si svolge in uno spazio angusto e asfittico con muri a tutta altezza e un frammento di cielo velato. La vista non ha prospettiva e profondità. Quasi tutti i reclusi in 41 bis subiscono il distacco della retina. Le opportunità trattamentali sono pressoché assenti. L’ora di socialità si svolge con le 3 persone che ti hanno assegnato, sempre le stesse per anni. Il cervello si spegne. Le opportunità di studiare, leggere, aprire la mente, esprimere una passione, un interesse, sono azzerate. Punire il cattivo, metterlo alla gogna, mostrarlo sconfitto. Lo Stato è forte, i cittadini protetti. Il Diritto muore, ma a chi importa?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:19