
Pensare che un professionista della comunicazione possa essere punito con il carcere a vita soltanto per aver svolto correttamente il proprio lavoro appare una barbarie impensabile. Giusto al tempo dell’antico Egitto il Faraone aveva potere di vita e di morte sui propri sudditi. Evidentemente Recep Tayyip Erdoğan, attuale Presidente turco, o soffre di manie di grandezza o è nato nel millennio sbagliato. Scherzi a parte, anche perché in questa vicenda c’è veramente poco di cui ridere, l’autoritario Erdoğan sembra voler continuare a tenere in silenzio i giornalisti con le minacce.
L’attuale presidente, ex primo ministro turco, non è infatti nuovo a queste pratiche. Questa volta a cadere sotto i riflettori è stato Can Dundar, direttore del quotidiano di opposizione Cumhuriyet. Pochi giorni fa il giornalista ha pubblicato le immagini di armi destinate a gruppi armati islamici in Siria a bordo di camion scortati dai servizi segreti turchi (peraltro nell’ambito di una inchiesta era stato dichiarato che i camion portassero mezzi umanitari). Va da sé che questa informazione non è proprio una gran bella pubblicità agli occhi del mondo e meglio sarebbe stato che fosse rimasta secretata. Una volta uscito lo scoop, il presidente, alquanto “infastidito” ha minacciato Dundar, preavvertendolo che avrebbe dovuto pagare un caro prezzo per il suo agire.
Caro prezzo che si è presto tramutato in una richiesta di ergastolo. Allo stesso tempo Erdoğan ha presentato una denuncia penale contro Dundar, accusandolo di “spionaggio”. Forte è stata l’ondata di solidarietà da parte di colleghi giornalisti e di organizzazioni internazionali della stampa. Il Comitato internazionale per la Protezione dei Giornalisti Cpj ha invitato il presidente a “smettere di fare del bullismo contro i giornalisti solo perché le loro indagini non sono di suo gradimento”. Il capo dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu ha rincarato la dose accusando Erdoğan di avere fatto del paese uno “stato canaglia”. Nonostante le molte critiche il presidente turco continua imperterrito la propria battaglia contro i media.
Il suo obiettivo primario sembra quello di mettere un bavaglio alla stampa libera e fare della Turchia un paese sotto il suo stretto controllo dove il silenzio è garantito soltanto dallo stato di terrore. Forte è la sua rabbia anche contro la stampa internazionale (verso la quale, ahinoi, nulla può), in primis il New York Times, contro il quale Erdoğan usa parole forti accusandolo di essere al servizio di menti superiori che vogliono indebolire e disintegrare la Turchia. Il Presidente turco agisce come una biglia impazzita e si rivolge – non a caso – con particolare violenza contro i media. Ben sa che una corretta informazione potrebbe risvegliare le coscienze e che questo rischierebbe di porre fine al suo dispotico regno!
Solo i deboli del resto hanno bisogno di agire con la forza, eliminare i dissidenti e mettere a tacere i critici. Ma, come ha giustamente commentato lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk, “La democrazia e la libertà di pensiero non possono essere sacrificate per l’emozione e la rabbia di un voto!”. Forse a livello internazionale sarebbe giusto fare qualcosa in più che rimanere a bocca aperta davanti a questa ennesima barbarie. Non è del resto un caso che il World Press Freedom Index 2014 curato da Reporters without Borders abbia posizionato la Turchia 154esima, descrivendola come una delle più grandi prigioni per i giornalisti, considerati minacce alla sicurezza nazionale.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:19