
L’occhio satirico di Maurizio Crozza si è girato verso l’interno dell’emittente che lo ospita, La7, da quando si è acceso lo scontro tra azienda e lavoratori. Dal 30 aprile è in corso un pacchetto di 5 giornate di sciopero dei 300 impiegati e tecnici dell’emittente concentrati a Roma (90 per cento) e Milano (10%). Non è la prima volta. Anche l’anno scorso per portare l’editore Urbano Cairo alla trattativa su premio di risultato, piano industriale e diritti dei precari, c’era voluta la giornata di sciopero del 9 maggio sostenuta addirittura dalla minaccia di cinque giornate di astensione dal lavoro dei giornalisti per il mancato rispetto del loro contratto, “mentre i manager di Cairo Communication e di La7 si spartiscono bonus milionari”. All’epoca la Fnsi ricordava che “con la scusa di un processo di risanamento, l’azienda non rispetta accordi sottoscritti con i lavoratori ed il contratto giornalistico”.
Uno dei mantra dei media è il reiterato slogan sul diritto costituzionale dei cittadini all’informazione. Un diritto che si ferma sempre alla strana privacy della vita aziendale, soprattutto in caso di conflittualità sindacale. A La7 hanno cercato, quest’anno come in passato, di non dare notizia dello sciopero. Per poi ridicolmente doverlo ammettere durante i telegiornali di fronte a titoli mancanti, servizi assenti, toppe di montaggio. Il satirico Crozza ha descritto il caos interno delle maratone televisive del direttore Enrico Mentana, addossandole ad agenti immobiliari, tinteggiatori e poliziotti. A tutti, tranne che ai veri responsabili: gli scioperanti. L’informazione sull’istituto dello sciopero (e delle sue motivazioni) langue, anche nella variante di satira. Contro lo sciopero nei media, i broadcaster ricorrono a tutto, dai service allo spostamento dei servizi giornalistici su altre sedi, alla preventiva registrazione dei programmi fino all’uso improprio di altri lavoratori. Come se nel mondo dell’informazione fosse lecito far fallire la protesta dell’astensione del lavoro chiamando forza lavoro sostitutiva ad hoc; un comportamento solitamente illegale ed antisindacale.
Da quando vi si è insediato, un lustro fa, “Chicco mitraglietta” ha trasformato La7 nel “Canale Mentana”, carico a detta dei suoi stessi collaboratori di un sadico stakanovismo. Il piglio decisionista dell’anchorman l’ha portato spesso in rotta di collisione con la proprietà, spesso per la mancanza di organizzazione (la famosa assenza di un direttore di rete) lamentata anche dai lavoratori. L’ex fondatore e conduttore per 12 anni del Tg5 berlusconiano, si è attenuto nella nuova rete ad una linea politica contraria alla precedente. Ogni governo succeduto a quello del centrodestra ha potuto contare sull’appoggio dell’emittente al punto che Mentana proibì di leggere il comunicato Fnsi di sostegno ai sindacati nell’autunno del 2011, andando in completa rotta di collisione con il comitato di redazione, cui offrì le dimissioni. Risultato? A dimettersi alla fine è stato il comitato, dopo il totale flop dei minacciati scioperi redazionali. La linea La7, rinforzata dagli altri nomi celebri della squadra, da Floris a Bignardi, da Formigli a Santoro e Travaglio, da Gruber a Crozza ed alle Urban’s Angels (Sardoni, Panella, Merlino, Bizzarri), con la mezza eccezione di Paragone, già vicedirettore di “Libero”, non ha dubbi di sorta. Erede di Rai Tre, piena di rampolli di famiglie progressive, candidati, portavoce, simpatizzanti, ex parlamentari tutti schierati, anche se di provenienze diverse da una parte sola, a sinistra.
In una televisione capace di dedicare una lunga serata nottata al monologo, senza contraddittorio, del leader Fiom Landini, ci sarebbe da attendersi se non ascolto, neutra informativa sulle vertenze dei lavoratori. Invece no. Nei tanti momenti di conflittualità sindacale del lustro la squadra rossa, messa su dall’ex pubblicitario e dall’ex conduttore Mediaset, non ha esitato a stare sempre dalla parte di chi paga. 4 milioni a Floris, 1 a Santoro, un po’ di più a Mentana, una decina a Crozza e troupe. Così Otto e mezzo è stato registrato, la diretta Tg si è salvata negli studi milanesi e le intemperanze di Crozza, imbarazzato sono rapidamente rientrate. La7 - erede di Tmc - è stata di Vittorio Cecchi Gori e di Telecom Italia, prima di approdare a Cairo Communication che già deteneva con Telecom Italia Media un vantaggiosissimo contratto di concessionaria pubblicitaria. Telecom che ci perdeva circa 100 milioni di euro l’anno la cedette al patron del Torino calcio ad un prezzo simbolico, con in più, caso più unico che raro, una sostanziosa dote di 120 milioni di euro per l’avviamento. Da subito la Cairo Communication è stata più che sparagnina, soprattutto sulle spalle dei lavoratori, al punto da considerare un costo anche la stesura di un piano industriale. Il disinvestimento nei settori produttivi vitali, il blocco delle relazioni industriali ed il massiccio ricorso agli appalti dei service hanno permesso di contenere il costo del lavoro, vera causa dell’aumento del 25 per cento dell’utile 2014 del gruppo. All’editore di Alessandria non basta. Vorrebbe che il lavoro incidesse a La7 non per il 30 per cento del fatturato, ma del 17 per cento, come a Mediaset. Senza capire il livello sinergico della concorrente, portata spesso ad esempio da Cairo, che, malgrado il perenne monitoraggio ostile, in tanti decenni non si è nemmeno iscritta all’albo ministeriale dei richiedenti cassa integrazione e non ha avuto serie vertenze, tranne quelle di piccoli scorpori di ramo d’impresa. Malgrado la provenienza Mediaset, la mentalità da padroncino di Cairo lo induce a considerare ridondante il numero della forza lavoro della terza tivù nazionale (100 giornalisti, 200 tecnici, 50 precari) ed a consigliare ai suoi dipendenti di ritenersi fortunati già solo per avere un lavoro.
In realtà, la generosità all’atto d’acquisto di Telecom ha implicitamente escluso per diverso tempo eventuali azioni traumatiche del nuovo padrone. Una volta scelto il mercato della telepolitica, sottoposta, da sempre, a vincoli evidenti e nascosti della partitica e dei poteri forti, Cairo ha dovuto essere di manica larga con le star delle news fondamentali per la raccolta pubblicitaria. Il suo sogno è un’informazione fatta da pochi fino all’esaurimento fisico. Difatti il tg costruito attorno a Mentana costa solo 10mila euro e numerosi crolli dell’ugola. Il 2015, anno di fusione delle spoglie di Telecom Italia Media nella casa madre, è anno più che fortunato per Cairo ed azionisti. Il suo Torino ha battuto la Juve. L’utile si è impennato. L’investimento Floris ha battuto la concorrenza di Rai Tre-Repubblica (mentre Formigli perdeva con Rete 4) per 5,41% di share a 5,05%. Sono lontani i tempi del 10 per cento (2 milioni di telespettatori) di Chicco Mitraglia quando partecipava alla canea antiberlusconiana intervistando Lavitola e Fini.
Nel monocolore mediatico renziano, il talk-show sta morendo per eccesso di noia unanimistica. E ancora La7 gode del pessimo momento della Rai e dell’assenza di Sky presso il grande pubblico dei telegiornali. I dati favorevoli permettono largamente l’integrativo aziendale ed il premio di risultato, ormai assenti da tre anni. L’ossessiva litania della cieca revisione lineare dei costi imposta all’interno ed all’esterno appare solo una scusa. Alle maratone giornalistiche si stanno contrapponendo quelle sindacali, che nel tempo potrebbero bloccare la rete in una conflittualità inesistente presso gli altri broadcaster. Quest’anno i giornalisti dell’emittente La7, senza neanche un comitato di redazione, sono al momento assenti. Impressiona il comportamento di una categoria che si è appena data un vertice sindacale ipersinistro; che vive l’agonia della fine dei diritti, che discute alla morte degli stipendi dei direttori della carta stampata e tace per quelli televisivi, che si proclama per i grandi ideali e poi fa fatica a costruire unità di intenti con gli altri lavoratori, come se i quadri in Europa non fossero parte strutturale dei sindacati. Prigionieri di una distinzione che non è più né di specie né di ruolo, ma solo di carriera, i giornalisti non capiscono di essere semplici lavoratori. Nelle tante debolezze del mondo del lavoro dettate dai tempi, il mondo dell’informazione risulta ancora più fragile per l’assenza di scelte senza fiato sotto i ritmi contrapposti delle maratone mentaniane e sindacali. Un risveglio significativo, come nel 2014, resta fortemente atteso.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:21