
L’espressione “ha fatto il suo tempo”, se ci si pensa, è una delle più spietate. Chi accetta di essere messo da parte? Chi si rassegna alla morte? Chi vuole lasciare questo segmento, questo pezzo, di storia? Come possiamo immaginare l’eternità o la morte?
Con tutto quel che c’è da fare indubbiamente i problemi esistenziali passano in secondo piano. Almeno in un primo momento. Ma poi? Chi non trasecola se pensa a quel che faceva venti o trenta anni prima magari nello stesso posto in cui si trova a vivere nel momento in cui sorge il pensiero? Il tempo è un po’ come un palazzo di tanti piani quanti sono gli anni passati che periodicamente ci cade addosso con i propri interrogativi.
E la morte resta la più inaccettabile delle evenienze anche se il pensiero di non volere mai morire è allo stesso momento l’apice dell’irrazionalità e della razionalità. Il punto in cui le due rette parallele di ogni pensiero si incontrano. E non all’infinito.
Fatto sta che quando ci si sente vecchi, specialmente in una società come quella attuale che nega questa vecchiaia pur essendo composta al 60 per cento da persone niente affatto giovani, si comincia a perdere già in vita qualcosa della propria stessa essenza. E non parlo di forza, coraggio o voglia di vivere. E’ come se gli altri guardandoti ti dessero l’impressione di non vederti. Nel recente dibattito polemico sulla restituzione dei soldi ai pensionati, dopo la sentenza 70 del 2015 in cui la Corte costituzionale ha fatto a pezzi il principale provvedimento del non rimpianto governo di Mario Monti (blocco delle indicizzazioni delle quiescenze), questo fastidio di fondo per i diritti dei più anziani è apparso in maniera quasi arrogante. Anzi senza il quasi.
D’altronde, e sarà cinico dirlo e rilevarlo ma sembra essere così, fateci caso che per i morti si piange sempre di meno, ci si meraviglia che muoiano al limite , specie se capita all’improvviso o da relativamente giovani, ma si chiude la pratica sempre più velocemente e anche i funerali e le sepolture o le cremature sembrano essere diventati pratiche burocratiche da espletare. Per rimuovere il prima possibile il pensiero della morte e continuare ad andare avanti illudendosi che “il problema” non esista.
Una prima banale osservazione indica che il fenomeno è tipico di questa società della comunicazione in tempo più o meno reale. In cui tutta l’essenza degli avvenimenti viene riassunta in poche righe, in un tweet, in un flash d’agenzia o similaria. Che spazio c’è per approfondire i propri pensieri di morte o “mortaccini” che siano? Che possibilità c’è di vivere un dolore che viene percepito come “stagnante”?
A ben vedere tutto ciò sembra essere parente stretto di quel deficit di attenzione indotto dai mezzi di comunicazione moderni che sempre più alienano dalla lettura per diporto, per studio, spostando tutta l’esistenza sulle “slides” della nostra vita stessa. Tutto si riassume e tutto si semplifica, ma la realtà ci fa a botte con questa maniera di vivere. Io ricordo che a scuola, quando ci andavano quelli della mia età, se si voleva studiare e capire qualcosa ci si rompevano facilmente le corna sui libri di testo. Che spesso non erano il massimo della vita ma erano comunque l’unico strumento di cui si disponeva per comprendere una determinata materia, dalla matematica all’esegesi della Divina Commedia.
Oggi ovviamente ci sono mille strumenti che in qualche maniera spingono verso il “fai da te”, al diventare auto didatti senza accorgersene. E così come il futuro della televisione potrebbe essere nella personalizzazione dei cosiddetti palinsesti, la cosa è destinata a replicarsi in tutti i campi dello scibile umano: ci scegliamo la nostra scuola, le nostre cure, i nostri pensieri eccetera.
E finchè si resta sul piano della teoria e della potenzialità tutto questo è ritenuto addirittura un successo, ovviamente. E un progresso. Ma cosa accade quando una nuova maniera di vivere, di provare o meno sentimenti, di studiare, di imparare, di lavorare, di personalizzare gli eventi diventa inesorabilmente “la nuova regola”?
Certi passaggi epocali non ci si può illudere che non lascino degli strascichi, che non abbiano contro indicazioni o effetti collaterali e che non stravolgano anche la maniera dei singoli nel rapportarsi con gli altri ma anche con se stessi.
Si vede anche nei rapporti d’amore: sempre più rapidi, più brevi, più tendenti al continuo cambiamento dei soggetti e delle prospettive. Andando tutti più veloci ci annoiamo prima delle persone e delle situazioni. E anche questo fa parte del “deficit di attenzione indotto dal bombardamento di informazioni”.
Paradossalmente anche i gusti sessuali vengono stravolti: si vuole provare sempre di più e sempre più velocemente una nuova esperienza e vivendo proiettati nel futuro, o nel rimpianto di un passato che troppo velocemente se ne è andato, si tende a comprimere, meglio a schiacciare, il presente.
Tutto questo se dal singolo lo trasportiamo alla cosiddetta interazione sociale dei tanti singoli, cioè alla politica, porta a disfacimenti evidenti: la gente non va più a votare, non crede a niente e a nessun partito politico, è quasi indifferente, o lo diventa, a conquiste liberali e democratiche che si tende e andare per scontate. Con il rischio di preparare la strada a nuove forme di autoritarismi post moderni. Si può arrivare a una dittatura indotta dalla noia e dalla alienazione mass mediatica.
Certo la base del fallimento della politica negli ultimi tre decenni sta “in re ipsa”. Ma l’alibi della non partecipazione alla vita democratica si è costruito attraverso anni e anni di induzione mass mediologica “al peggio”. Al “ben altrismo” e a tanti altri fenomeni che fanno sì che soprattutto le generazioni più giovani, e quelle più anziane, rispondano sempre più spesso nei sondaggi con la frase “non mi interesso di politica”.
Facendo finta di non sapere che comunque la politica, anche malevolmente, “di te si interessa e si interesserà sempre”. E’ la sindrome della cavia da laboratorio, politico e sociale: siamo ormai tutti trasformati in oggetto di ricerca per i nostri gusti e i nostri consumi e quello politico è uno di essi. E come reagiamo con fastidio a chi ci vuole vendere al telefono un determinato prodotto, spesso tecnologico avanzato, allo stesso modo reagiamo a chi vuole coinvolgerci in qualche maniera in un determinato progetto politico.
E’ evidente il rischio: se i migliori potenziali reagiscono con noia e distacco saranno i peggiori a salire su quel carro. Ed è un po’ quel che è avvenuto dalla caduta della cosiddetta prima repubblica ad oggi.
La politica infatti e non solo in Italia è diventata la scorciatoia dell’arrivismo sociale e finanziario. E questo peggiora le democrazie. E non ci si può semplicemente tirare fuori. Rinchiudere sdegnati in torri d’avorio il cui affitto o la cui gestione casalinga costano sempre più cari. Ma è quel che purtroppo facciamo in maniera quasi inconscia e continueremo a fare ancora per un pezzo. Finchè la situazione non precipiterà ulteriormente.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:27