La grande mappa   della discriminazione

Certi nomi sembra che ce li possiamo dimenticare. Sembra che la storia, che inopinatamente ad essi ha dato rilievo e significato, si prenda il disturbo di cancellarli non solo dalla “Memoria”, quella che ha (o dovrebbe avere) la “M” maiuscola, ma da ogni nostra preoccupazione per il fastidio che sono arrivati a provocarci. Quanto tempo è trascorso senza che abbiamo più avuto occasione di imbatterci in Nando Dalla Chiesa (nella foto)? Altri mafiologhi lo hanno soppiantato, altri congiunti di vittime della mafia sono ad esigere l’obolo quotidiano della canonizzazione e si sono imposti nella professione di parenti, figli, sorelle, fratelli, di sempre nuovi assassinati. Nando Dalla Chiesa, del resto, aveva scelto il ramo sbagliato della professione di “figlio della Vittima, eccetera eccetera”.

Alle immancabili liturgie aveva preferito, o così sembrava, l’autorità della cattedra. Faceva parte di un gruppo di mafiologhi in carriera universitaria. Le università sono, anche a prescindere da certe invasioni, in un così evidente declino di peso e di autorità, da lasciare sbiadire qualsiasi bel nome legato alla venerazione di una vittima ed a sommergerlo sotto valanghe di agende rosse ed altre cose del genere. E poi a cambiare sono molte circostanze, pur immancabili, che accompagnano i ricordi delle vittime ed i riti in loro suffragio. Era di moda, quando Nando Dalla Chiesa era in auge nel suo ruolo, la qualificazione, chissà perché ritenuta esaltante, che “quello fu un delitto di Stato”.

Se non ricordo male Nando Dalla Chiesa, per sostenerla per l’assassinio di suo padre, lasciò intendere una tesi che, mentre non sembrava adattarsi al ruolo universitario del figlio, non era poi la più idonea a confutare la memoria delle virtù della vittima paterna, già abbastanza, per così dire, aggrovigliata, che non meritava di essere così maltrattata per creare un’aureola di mistero per quel delitto di mafia che segnò, in effetti, una volta rispetto alle tradizioni mafiose. Ma torniamo a Nando, al figlio ed al suo ricomparire alla ribalta, di un’antimafia oramai allo sbando che si accanisce a misurare la propria “purezza” con le farneticazioni di processi allo Stato per il tentativo di subire i ricatti mafiosi.

La ricomparsa sulla scena (magari altri sapranno che non ce ne eravamo mai veramente liberati), di Nando Dalla Chiesa è legata ad un suo progetto. Bisogna “mappare la mafia”. Quando andavamo a scuola c’erano appese alle pareti un paio di grandi carte geografiche: “L’Italia politica” con le città, i confini ed i colori delle regioni, i nomi dei Paesi confinanti, ecc. E poi l’altra, in cui il territorio era segnato dai colori marroni e verdi, con l’azzurro dei mari, dei fiumi e dei laghi: “L’Italia fisica”, con le quote delle montagne e quelle delle profondità marine. Ora dovremmo, secondo il mafiologo Dalla Chiesa del fu Carlo Alberto, appendere un po’ dovunque un’altra carta: “L’Italia mafiosa” con colori diversi secondo l’intensità della presenza delle congreghe criminali e, magari, il numero delle vittime a segnare le varie località. Tutti i gusti sono gusti.

Questo ridisegnare, oltre che la storia, la geografia del nostro Paese secondo le indagini mafiologiche del Centro studi dell’Università di Palermo, mi sembra, a parte il resto, il più tenebroso ed insulso degli altri. Ma non si tratterebbe solo di carte geografiche e di qualifiche da appioppare a regioni, provincie, città, paesi (con le relative popolazioni). Il ché è già razzismo bello e buono. Se abbiamo ben capito il discorso fatto dal Dalla Chiesa per esporre il suo progetto, “la mappa” dovrebbe andare oltre. In un indice a parte (consultabile via Internet) dovrebbe esserci l’elenco dei mafiosi, probabilmente divisi per categorie: “punciuti”, “uomini d’onore”, “avvicinati” (così per un certo tempo chiamavano i “mezzi mafiosi” i pentiti più autorevoli. E poi “mafiosi” e “concorrenti esterni”. Ma non basta, perché pare che dovrebbero essere “mappati”, per risollevare lo spirito depresso da quegli elenchi, anche gli “antimafiosi”: generici, militanti, organizzati, collaboranti eccetera, eccetera.

E, magari, professori universitari. Sullo schermo internet che annunziava la proposta (poi esposta “in voce” dal cattedratico), ad un certo punto è apparso il titolo, che non era uno scherzo, un’intromissione di uno che si era proprio rotto le scatole, ma che doveva essere preso (nientemeno!) sul serio: “Mappiamoli tutti”. Già. Certe volte ci vuole una gran fatica a resistere all’impulso, a non cadere nella tentazione della reazione adeguata alla provocazione. Respingendo, nel caso, la voglia di fare la mappa, l’albo di questi paladini della “legalità”. Sarebbe un lavoro, oltre che triste e deprimente, arduo, impossibile. Le madri degli imbecilli, diceva quel tale, sono sempre incinte. Meglio rischiare di essere “mappati” da questi qua che arrivare ad imitarli.

 

(*) Articolo tratto da Giustizia Giusta

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:26