Dialogo sociale e Babele sindacale

Malgrado l’illusione degli enunciati, l’Europa non ha la cosiddetta gamba sociale. Per amor di parafrasi, quella sociale è la quinta colonna di un tavolo fondato su tre di pace (il compromesso franco-tedesco, l’intesa minima anglo-europea, il panatlantismo garantito dalla Nato) e la quarta economica di avvicinamento progressivo al modello Usa. Il sindacato rappresenta una delle diversità strutturali tra Europa ed America.

La gamba sociale europea, pure semisolida, esiste solo per la storica presenza delle unions europee, che si vorrebbe un poco alla volta far sparire. Negli Usa, il sindacato fu inizialmente una gilda razzista professionale simile alle corporazioni italiane medioevali, poi si fece etnico con gli immigrati europei della catena di montaggio. Infine si è specializzato soprattutto per fondi d’investimento pensionistici per lavoratori delle corporation, pubblici e militari. In Europa, il sindacato fornì massa e dirigenza ai partiti dell’anticapitalismo e poi della “riduzione del danno” capitalistico, anche se in Uk o in Germania il nazionalismo prevalse sempre sull’internazionalismo proletario. Il capitalismo del dopoguerra non poteva governare un Continente semidistrutto. Sia la presenza del blocco comunista, con il falso trionfo dei lavoratori al potere, che il recente passato nazifascista, che aveva coattivamente affiancato agli industriali una massiva partecipazione sindacale, imponevano di andarci cauti sulle questioni sociali. L’Europa, come oggi la conosciamo, nacque dalla scelta sindacale di accettare o meno il generoso abbraccio americano.

Il sindacato in Italia ed in Francia su quell’aiuto, peraltro indispensabile, si spaccò. Da noi nacquero Unions che guardavano con speranza ai colleghi americani, magari dal cognome italiano. Il comitato Marshall, trilaterale (governi, sindacati, imprenditori), detto Tuac, esiste ancora a imperitura memoria di quella scelta. Alla lunga le scelte dei sindacati proatlantici prevalsero senza conquistarsi il consenso di massa. Gli ex sindacati comunisti, senza cambiare una virgola né una persona, né la testa, entrarono muti in quella che era stata la confederazione internazionale dei sindacati liberi, che per non umiliarli tolse dall’acronimo l’ultima parola.

L’Europa si è trovata con una mission impossible, anzi due. Preservare la presenza sindacale in una economia americanizzata e proteggere il dumping sociale, naturale per le povere economie orientali annesse, facendo finta che i sindacati orientali postcomunisti potessero essere unions progressiste. Intanto gli Usa crescevano in innovazione e tecnologia, senza l’ombra di un sindacalista nei relativi settori economici.

Il Vecchio Continente allora è fuggito in corner, inventandosi il dialogo sociale. Quattro articoli del trattato europeo offrono risposta ai problemi del lavoro che sono da sempre e dovunque due: un lavoro che dia reddito ed una buona paga. Difatti, l’articolo 151 comincia dichiarando che buona occupazione, buon stipendio, carriera sono obiettivi principali dell’Unione. Li pone sotto l’ombrello della collaborazione tra lavoratori e imprenditori; cui ultimi è lasciato il compito di dare buoni posti, buone paghe, giorni sereni. L’articolo 153 chiarisce che l’Unione non mette becco nelle retribuzioni. L’obiettivo buon tenore di vita non c’è più. L’Europa si disinteressa di sciopero e associazionismo sindacale. Nel senso di introdurre agenzie regolatorie tese a ridurre le interruzioni dal servizio che tanto dispiacciono ai consumatori.

L’articolo 154 illude lavoratori e imprenditori (organizzati a livello europeo) con il potere di consigliare, ma rimanda al 155 che offre all’azione congiunta di lavoratori e imprenditori la possibilità di bloccare per 9 mesi nuove norme. Qui la collaborazione politica, se ben gestita, tra i due soggetti privati, potrebbe anche mettere sotto scacco la voglia burocratica e finanziaria dell’Europa. Non è prevista però una tale collaborazione, né si è mai vista. La collaborazione prevista, del dialogo sociale, deve essere continua e ininterrotta, senza trattare di paga, occupazione, mansioni. Un uomo ed una donna che devono stare sempre insieme senza mai toccarsi, baciarsi e far l’amore. Il dialogo sociale è nei fatti l’arte dei lavoratori di ascoltare i motivi per cui devono perdere il lavoro o essere pagati poco e male. Quando abbiano la fortuna che gli imprenditori vogliano perdersi in giustificazioni.

Il dialogo sociale è richiesto ma non imposto, è obbligatorio ma non sanzionato. Chi non dialoga non è punito al contrario di chi lo fa troppo, spellato vivo dalla disapprovazione delle Borse. Il trasparente dialogo sociale, simile ad una contrattazione ancora nell’età della pubertà, movimenta comunque un notevole apparato di commissioni, quadri e sottoquadri, consulenti e acronimi. Gira attorno al busillis di centrare obiettivi né qualificabili, né quantificabili ma ostacolabili. L’Europa alterna la voglia di competere con gli Usa con la difesa del retaggio di un welfare intaccato (e che si reggeva anche sul finanziamento americano della guerra fredda). La buona carriera si fa anche nel volontariato che affianca le burocrazie; la paga c’è anche senza lavoro e la migliore occupazione è una piccolissima impresa. L’uomo del dialogo sociale, il presidente Ue Jean-Claude Juncker, intende il colloquio in oggetto come un fatto suo privato rivolto ai socialdemocratici tedeschi. Per i quali un dialogo è fatto solo di parole.

I sindacati tedeschi non dialogano ma governano in azienda; i francesi all’Eliseo, gli inglesi nelle organizzazioni internazionali. I meridionali come al solito non contano. La Torre di Babele sindacale, senza lingua e vocabolario, senza partiti la cui catena di trasmissione vola in aria sconnessa, non può gestire le cose negli Stati. E nemmeno in quell’Europa che pospone il tema sociale, al raggiungimento dell’omogeneità economica continentale. Che ci sarà quando l’Europa sarà Usa-like. Appunto, senza tema sociale.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:22