Il giorno delle civette

Questo nostro sud, sonnolento, impantanato nelle tradizioni e nel suo essere sempre appendice di un mondo evoluto, ci inquieta quando fa notizia e ci stupisce quando non la fa. Nell’immaginario collettivo la Calabria è il paese della ‘nduia e della ‘ndrangheta, due cose affini per forza e sapore.

Così la sua mafia ha le stesse caratteristiche che può presentare il piatto regionale tipico: deve essere la sintesi delle doti di un popolo e ne deve rappresentare la storia. La ‘ndrangheta è il lato oscuro, il rovescio della medaglia di un modo di essere e di pensare tutto calabrese. La notoria chiusura e la diffidenza di chi è abituato a vivere in un luogo impervio, impenetrabile in cui l’altro è ancora il “barbaros” o meglio “u furastiero”, emerge prepotente come elemento quasi salvifico, idoneo a preservare la comunità dal nuovo, dal diverso, dall’altro. Il calabrese è riservato, austero e determinato, una mente geniale che se posta a servizio del crimine può raggiungere obiettivi impensabili. Una descrizione spendibile anche per il suo piatto forte: la ‘ndrangheta. Quando questa mafia era ancora fenomeno regionale, la sua forza era tutta nel controllo del territorio, nel rispetto delle regole, nel “si uccide solo a seguito di una colpa”, di uno “sgarro”, con un codice preciso in cui donne e bambini erano intangibili.

In tempi insospettabili, quando il boom economico degli anni Settanta rendeva ricco l’italiano medio, la ‘ndrangheta decideva di fare il salto di qualità e di costruire il suo capitale per affacciarsi al panorama internazionale. Quando la mafia siciliana, con faide sanguinose si contendeva il dominio del territorio ed il ghiotto mercato della droga, la ‘ndrangheta costruiva e portava a termine, indisturbata, il suo disegno criminoso.

Con un ventennio dedicato ai sequestri di persona, lastricò la strada per l’ascesa economica, con una pioggia di denaro pronto ad essere reinvestito nel mercato della droga. I colombiani, i signori dei cartelli trovarono nei calabresi i loro naturali interlocutori: affidabili, riservati e sanguinari. Mentre la mafia blasonata, quella siciliana, si spendeva in giochi di potere politico in attesa di conquistare i palazzi di Roma, la ‘ndrangheta partiva da realtà rurali, povere e incolte con la grande consapevolezza che l’essere impenetrabile ed impenetrata gli consentiva l’ulteriore agevolazione di agire indisturbata.

In Calabria la ‘ndrangheta è nata con le stesse logiche dell’impresa familiare, è una attività economica che produce ricchezza, senza lo sfarzo e la pretesa di sembrare qualcosa di diverso da quello che è. La politica è uno strumento occasionale e mentre le altre mafie si dimenano per colonizzarla, la ‘ndrangheta le rimane totalmente indifferente per fini ed obiettivi. L’idea della infiltrazione mafiosa nelle fila della politica locale (con i casi di scioglimento di numerosi comuni) rappresenta solo la punta dell’iceberg, frutto di un naturale fenomeno di fidelizzazione, talvolta nemmeno promosso, ma frutto della viscida deferenza della burocrazia, che chiede sotto elezione e restituisce durante il mandato. Oggi il mondo la conosce ma solo superficialmente, con i suoi pochi pentiti e con le sue limitate stragi, si muove avvolta nel suo silenzio e con la logica tipica del finanziatore: non sempre è dato conoscerlo.

Così è balzata agli onori della cronaca per via delle inchieste sulla ricostruzione post-terremoto in Emilia e per la pioggia di denaro che sta investendo le attività produttive del nord. Una sorta di fenomeno inverso a quello degli inizi del secolo scorso. Fenomeno che la procura della Dda di Reggio Calabria aveva già intercettato ma che, come sempre accade in Italia, diventa notizia solo a seguito del coinvolgimento del politico di turno.

Nulla di cui stupirsi per quel che, di regola, accade in quel crocevia che è lo sviluppo economico dove si intersecano politica, grandi imprese ed investitori: la prima funge da mediatrice, i secondi da esecutori e gli ultimi non hanno bisogno di carte di identità. In questa catena la ‘ndrangheta è per naturale destinazione l’investitore. Il denaro sporco è un eufemismo ed il nord è una semplice piazza produttiva.

Come si può pensare che in un mercato asfittico come quello italiano i capitali piovano dal nulla! È la ratio che ha fatto scuola in tangentopoli: seguire le tracce del denaro. Tuttavia siamo sempre sul punto di scoprire l’acqua calda! Ma se la politica non accenna a divenire virtuosa e le imprese sono in cerca di capitali, cosa riesce a stupirci di tutto questo discorso? Che forse sia il nord ad essere oggetto di questa colonizzazione al contrario? La povertà è facile preda dei lauti guadagni e questo vale per il nord come per il sud. Le logiche della ‘ndrangheta sono quelle comuni a qualsiasi banca, che il denaro produca altro denaro. L’uncinabilità della leadership finanziaria e produttiva del nord non è diversa da quella del comune calabrese che diventa mafioso: la ricchezza.

In Calabria la ‘ndrangheta si sente, si respira, si conosce, si tollera, quando però si muove per investire i suoi soldi diventa invisibile, impalpabile, affiorando solo nel momento in cui risulti necessario intimidire. Mafia-Capitale, lo scandalo Expo, l’inchiesta emiliana sono la testimonianza di qualcosa di più tragico del solitario intento delle mafie di ramificarsi. È un modo di pensare e di essere. Quando i diritti diventano favori ed il provento illecito la normalità tutta, l’Italia diventa Calabria e allora cadono quei bei discorsi sulla mentalità mafiosa tipica del sud.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 15:11