
Scontro aperto sulla Rai. A trecentosessanta gradi. Matteo Renzi ha fretta. Vuole imporre la sua riforma a partire da marzo. Giovedì il Consiglio di amministrazione di viale Mazzini si riunirà in trasferta a Milano per varare il piano Gubitosi con le 17 correzioni della Commissione parlamentare di vigilanza.
Il “premier più sovraesposto in tv”, come osservano gli esponenti del Movimento 5 Stelle, si è presentato domenica da Lucia Annunziata per annunciare dalle telecamere amiche di “In ½h” che non esclude il ricorso al decreto legge se ci saranno le condizioni di necessità e urgenza come prevede la Costituzione. Dipenderà dai tempi parlamentari”. Ma, come capita spesso al Premier e segretario del Pd, le sue esternazioni da rottamatore vanno oltre la normale dialettica politica. Vuole imporre la sua verità, i suo modi spicci. Non ha tempo. L’ostacolo è le legge che porta il nome del vicesegretario del Senato ed esponente di primo piano del partito di Berlusconi.
“No problem”, Gasparri sarà rottamato. Partendo dalla convinzione che “la Rai debba essere il grande motore dell’identità educativa e culturale del Paese”, per Renzi l’azienda pubblica di viale Mazzini “non può essere normata da una legge che si chiama Gasparri”. A parte il linguaggio in puro stile politichese il Presidente del Consiglio ha approfittato di essere su Rai Tre per aggiungere: “Lo dico perché ho un’idea dell’identità educativa e culturale diametralmente opposta a quella di Gasparri”. Renzi così dimentica la genesi e la formulazione della legge varata nel 2004 dopo un lunghissimo tira e molla con l’allora opposizione del Pds di D’Alema, Veltroni, Prodi e compagnia bella che non intendevano far fare all’Italia il passo avanti del digitale terrestre che pure era un indirizzo della Ue.
Compiuta la scorrettezza nella trasmissione dell’ex presidente della Rai senza interlocutore, Renzi ha bruciato anni di dibattiti sul pluralismo, sul diritto all’informazione per tutti, sull’azienda del servizio pubblico aperta alle diverse realtà territoriali e culturali. Quando nel 1979 nacque la Terza Rete con il compromesso tra Biagio Agnes per conto di De Mita, Tatò-Veltroni-Curzi per conto di Berlinguer e di Manca su incarico di Bettino Craxi la spartizione e la lottizzazione divennero sistema.
La Rai va di nuovo riformata, magari senza l’ingerenza dei partiti? (a dire la verità a viale Mazzini non si sono spartiti solo i vicecapiredattori come dice Renzi, bensì direttori, vicedirettori, consiglieri di amministrazione, manager, tecnici, impiegati. Il caporedattore della Toscana è sempre stato indicato dal Pci). Il sospetto è che Renzi vuole cambiare “governance” non tanto per renderla più efficace ed efficiente, ma per imporre una struttura da governare. La sua longa manus con un trust (una fondazione alla quale verrebbe conferita la proprietà del ministero del Tesoro, tipo Bbc) che nominerebbe un consiglio di amministrazione snello composto da 3-5 membri, da un amministratore delegato (che si occuperebbe dei conti) e un direttore generale che sovrintenderebbe al prodotto.
I direttori delle testate sarebbero ridotti a due dagli attuali otto, i vicedirettori 12 invece di 32, con due newsroom. Verrebbe abolita la Comissione parlamentare di vigilanza. Secondo i tam tam degli esperti di cose politiche lo schema di riforma sarebbe già nei cassetti delle scrivanie di Elena Boschi (ministro delle Riforme) e del sottosegretario alla Presidenza Antonello Giacomelli. In settimana dal Cda di Milano e dal Consiglio dei ministri uscirà lo schema futuro della Rai targata Renzi.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:21