Chi scommette ancora  su Vladimir Putin?

Lo avreste mai creduto che, creata la Ue, avremmo assistito al ritorno in grande stile dei nazionalismi e delle rivendicazioni autonomiste, da parte di consistenti minoranze etnico-linguistiche del resto d'Europa? A me pare inevitabile, quasi per legge di natura, che aree economicamente depresse reagiscano con la violenza, resuscitando l'orgoglio nazionale, per coprire l'arretratezza e l'irrilevanza internazionali delle loro economie. Vediamo, stando alle ottime analisi del Center for Strategic and International Studies, che cosa stia accadendo nel Donbass (la regione cuscinetto tra Ucraina e Russia, al centro dell'attuale crisi internazionale, tra Mosca e l'Occidente), dove i ribelli filo russi continuano a fare i furbi, chiedendo che la linea di demarcazione del cessate il fuoco sia estesa di ulteriori centinaia di miglia quadrate, inglobando anche le porzioni di territorio ucraino, da loro occupate con la forza delle armi (russe!). A scanso equivoci, va detto che la storia recente ci insegna a dubitare della buona volontà dei due contendenti (Russia e Ucraina) di giungere e, soprattutto, di rispettare un accordo definitivo, tra di loro! Per esempio, sul versante russo si denuncia la violazione fondamentale del patto, siglato nel febbraio 2014, dai rappresentanti di Ucraina, Francia, Germania e Polonia, a proposito dell'impegno solenne di tenere in vita l'Amministrazione dell'ex Presidente ucraino, Yanukovych, soltanto per ulteriori dieci mesi, prima di convocare nuove elezioni presidenziali. Per i russi, il mancato rispetto di quella clausola, si configurerebbe come un vero e proprio colpo di stato.

L'altra (e, forse, non meno importante) rivendicazione di Mosca, è l'ulteriore violazione dell'accordo di Minsk sul cessate il fuoco, dovuta alla mancata restituzione ai separatisti dell'aeroporto di Donetsk. Veniamo, ora, alle contestazioni mosse a Putin dal suo contendente ucraino, nonché dall'Europa e dagli Usa. In base a incontestabili dati di fatto, la Russia avrebbe: a) palesemente violato i Trattati internazionali sulla sicurezza delle frontiere e sul rispetto degli Stati sovrani, occupando un anno fa la Crimea e, successivamente, addirittura annettendola nel marzo 2014; b) mentito spudoratamente, negando forniture di armi pesanti e l'invio di un considerevole contingente di consiglieri militari russi, per sostenere in tutti i modi la ribellione filorussa nel Donbass. Questa ostinazione a negare l'evidenza, ha fatto sì che lo stesso Ministro degli Esteri russo, Lavrov, fosse fatto oggetto di derisione e di scherno, da parte dei delegati occidentali, intervenuti alla recente conferenza di Monaco, per la pace in Ucraina.

Ovviamente, dal punto di vista strategico, e in risposta al Che fare?, per imbrigliare l'invadenza e l'arroganza di Mosca, l'Occidente, nel suo complesso, sta valutando i pro e i contro, dell'invio di rifornimenti di armi pesanti al Governo ucraino (in pratica, una sorta di vietnamizzazione del conflitto locale, nella regione contestata). Chi, tra gli esperti dei Governi occidentali, è favorevole avanza l'ipotesi che gli aiuti militari, congiuntamente alle sanzioni economiche già adottate, possano causare forti perdite umane e materiali, nei ranghi dei ribelli, tali da far cambiare idea a Putin su di un eventuale escalation del conflitto attuale, spingendolo, così, su posizioni meno oltranziste e più concilianti. Sull'altro versante dei contrari, si tende a negare proprio quest'ultima eventualità: Putin, malgrado la pressione di qualche insuccesso eclatante sul campo, è in grado, per così dire, di tenere botta, grazie a una serie fondamentale di fattori, che giocano a suo vantaggio (come la posizione territoriale, e la determinazione dei ribelli, che non temono affatto perdite umane consistenti tra le loro fila, contrariamente a quanto accade per gli effettivi dell'esercito ucraino, scarsamente motivati e ancora peggio addestrati!).

Ma, forse, l'argomento più solido degli oppositori ai rifornimenti di armi a Kiev, riguarda il rischio, assai consistente, di una reazione a catena, che potrebbe coinvolgere anche altri Stati confinanti (non aderenti alla Nato, va detto, per cui non vi sarebbe un obbligo di intervento e di assistenza, da parte dell'Alleanza). Tra l'altro, in caso di coinvolgimento, più o meno diretto, dell'Occidente, Putin avrebbe buon gioco a ravvivare la fiamma del nazionalismo panrusso e panslavo, presso la sua opinione pubblica. D'altra parte, però, la minaccia persistente, da parte occidentale, di soccorrere Kiev con l'invio di consistenti forniture di armi (in attesa che le sanzioni in atto dispieghino, sino in fondo, i loro effetti), potrebbe indurre Putin a non spingere troppo l'acceleratore sull'intensificazione del conflitto nel Donbass. Tanto più che, truccando la realtà, per non inimicarsi ulteriormente l'opinione pubblica interna, sempre più contraria all'intervento in Ucraina, Putin starebbe tenendo all'oscuro i russi sulla reale entità delle sue perdite civili e miliari, nonché di quelle materiali, finora subite, per aiutare i ribelli filorussi.

Negli ultimissimi giorni si è conclusa la maratona di Minsk, con la dichiarazione della sospensione delle ostilità, a partire da domenica 15 febbraio, con contestuale ritiro (che dovrà essere completato nell'arco di 14 giorni seguenti) delle armi pesanti dalla regione del Donbass, a partire dal secondo giorno successivo all'entrata in vigore del cessate il fuoco. Dopo di che, potranno iniziare i negoziati di pace. Mosca, ovviamente, insiste affinché l'Ucraina adotti una riforma costituzionale, che dia un'ampia autonomia alla regione filorussa ucraina, alla quale, per ora, si oppone strenuamente Kiev. Vedremo che cosa ne uscirà dal futuro tavolo multilaterale delle trattative, tra i due fratelli-coltelli confinanti.

Il problema vero, però, è di capire se gli accordi raggiunti di recente, tra Russia, Ucraina, Germania e Francia, reggeranno alla prova degli eventi, di qui a un anno. Putin ha assoluta necessità (come al solito!) di evocare la minaccia dall'esterno, per tenere unita politicamente la Russia, e far passare in secondo piano la profonda crisi economica e sociale interna, che il suo Paese sta attraversando. Una nota di colore, infine. Molti si chiedono dove sia la Ue, in tutto questo frangente storico, visto che la Mogherini è stata fatta fuori dal recente tavolo delle trattative. A parte il mio giudizio sul personaggio, la cui caratura internazionale mi pare fortemente deficitaria, osservo una cosa molto semplice: Germania e Francia sono il centro propulsore, storicamente, della Comunità (prima, e oggi dell'Unione) Europea. Per effetto dei Trattati, poi, l'organo supremo delle decisioni comuni, è il Consiglio Europeo dei Capi di Stato e di Governo. Visto che siamo in 28, attualmente, è sensato e ragionevole che gli altri 26 abbiano delegato i responsabili dei due Stati fondamentali dell'Unione a rappresentarci. L'Italia è un nano politico che, per sua antica tradizione, ha sempre il piede in due staffe: un po' con Putin; un po' con Obama. Suvvia, diciamocelo: siamo un Paese di furbi perdenti!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:33