Femminicidio, piaga   in costante crescita

Ci sono notizie che ti lasciano senza parole, incapace persino di una reazione di rabbia o di rifiuto. Rimani lì, attonito, chiedendoti il perché di tanto orrore.

Pochi giorni fa un uomo ha ucciso la sua ex moglie. Una notizia terribile, ma ormai incapace di produrre alcuno sgomento. Ci siamo “abituati”, nostro malgrado, a questo tipo di cronaca. Il femminicidio sembra esser diventato uno sport nazionale. Ed il rapporto Eures, quest’anno alla sua seconda edizione, lo ha messo chiaramente in risalto. Il 2013 per l’Italia è stato un anno nero. 179 le vittime (in aumento del 14% sul 2012), una ogni due giorni. La maggior parte dei delitti si consuma in ambiente domestico, per mano di familiari: ben 7 su 10. Il movente è nella metà dei casi quello “passionale” o “del possesso”. Le esecuzioni sono efferate: una su tre viene uccisa a “mani nude”… le modalità più ricorrenti sono lo strangolamento, il soffocamento, le percosse. Sono dati impressionanti, che mostrano una cultura retrograda che identifica nel femminile una figura subordinata, un “bene” che diventa proprietà del coniuge o del compagno. E che quindi merita di essere uccisa, peggio di una bestia, qualora tenti di ribellarsi allo status quo. Ma quel che è accaduto la scorsa domenica nel salernitano mostra aspetti finanche più inquietanti. Potremmo definirlo un delitto in salsa 2.0. Stando ai fatti (ancora non particolarmente chiari), Cosimo Pagnani, 32 anni, si è recato nell’abitazione dell’ex moglie – che lo aveva lasciato un anno prima, avendo in affido la bambina di 7 anni nata dall’unione, e che si era ricostruita una vita – e, dopo una lite, l’ha uccisa con ripetute coltellate all’addome, rimanendo egli stesso ferito nella colluttazione. Prima di recarsi in ospedale – perdendo molto sangue – il killer ha però deciso di postare su Facebook la frase “sei morta troia”. Nelle ore successive – e questo è un aspetto raccapricciante – il messaggio ha ricevuto centinaia di “mi piace”.

Il profilo di Pagnani sul social network è stato successivamente chiuso. Or bene, se l’autore del delitto è evidentemente un soggetto squilibrato, animato da pulsioni che poco o nulla hanno a che fare con un comportamento sano e razionale, chi sono esattamente costoro che, estranei alla vicenda, hanno sentito di voler applicare il proprio “like” ad un simile conato di violenza? Purtroppo occorre forse ammettere che, così come nella realtà offline esistono “buoni e cattivi”, lo stesso accade per il mondo del web, al quale tutti possono accedere senza che gli sia richiesta alcuna partente di “sanità”. La riflessione che scaturisce è se queste piattaforme di rarefatta socialità possano agire da amplificatori di violenza e aggregatori di odio. E, in caso di risposta affermativa, comprendere come arginarle. Sono del resto tristemente noti i fenomeni di hatespeech nati all’interno dei network sociali che hanno portato addirittura alcuni adolescenti al suicidio.

Ma al di là dei problemi connessi alla rete – cui certo andrà fornita adeguata risposta –, questo delitto rappresenta l’ennesima conferma della necessità e dell’urgenza di un intervento serio ed efficace da parte delle istituzioni. Il rapporto Eures ha evidenziato che nel 2013, oltre il 50% di quelle che sarebbero divenute “future vittime” aveva segnalato e denunciato alle istituzioni le violenze subite. Evidentemente i loro appelli sono rimasti inascoltati. E questa disattenzione ha purtroppo generato molti orfani.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:08