
Anche se la cronaca non è ancora storia, bisogna riconoscere che, talvolta, gli eventi che accadono nella contemporaneità fanno presagire con nettezza su cosa gli storici converranno in futuro. Per esempio, le vicende polacche dei primi anni Ottanta sono riconosciute da chiunque come le palesi avvisaglie del crollo dei regimi comunisti. Altrettanto, in casa nostra, si può dire del fenomeno, ormai irreversibile, della profonda trasformazione che il sistema dei partiti politici ha subìto negli ultimi venti anni. In sostanza, i partiti tradizionali, con tanto di organizzazioni centrali e territoriali, funzionari, uffici e burocrazie, hanno lasciato il posto a strutture più snelle che mobilitano i propri iscritti e svolgono propaganda, più che altro, durante le campagne elettorali, quasi senza manifesti, nessun volantinaggio, pochi comizi e molto ricorso ai mass media. In fondo, si tratta di una modernizzazione che vede l’Italia allinearsi a quasi tutti gli altri Paesi occidentali che, peraltro, non soffrono di alcuna menomazione democratica.
Come sempre, tuttavia, nel nostro Paese le trasformazioni avvengono con pesante lentezza a causa dei nostalgici di turno i quali oppongono una dura reazione ad ogni ‘cambiamento’ che non si identifichi, piuttosto contraddittoriamente, con la conservazione di ciò che esiste a cominciare, appunto, dalla fisionomia dei partiti. Ed è esattamente qui che gli storici individueranno una chiara connessione fra Berlusconi, certamente il primo straordinario modernizzatore della recente politica italiana, e il suo epigone Renzi. Destra e sinistra, dunque, accomunate dalla genesi di una mutazione e selezione quasi darwiniane, ma che ricorda anche la lezione di Pareto sulla necessaria "circolazione delle élites", che adatta i partiti alle nuove caratteristiche della società contemporanea lasciando i nostalgici in un’oggettiva difficoltà di sopravvivenza.
Gli elementi in comune ai due leader sono infatti molteplici e lampanti. Sul piano dello stile personale, Berlusconi e Renzi sono accusati di essere ‘solo’ comunicatori e di raccontare troppe barzellette. Ambedue sarebbero troppo inclini a dichiarazioni forti e poco politicamente corrette. Sia l’uno sia l’altro gestirebbero il partito come fosse cosa loro, come fosse un’azienda. Ambedue sono il segno, e la causa, di un brutto scadimento della politica e costituiscono dunque un pericolo per la democrazia. L’uno è il leader di un partito di plastica e l’altro è il promotore del disfacimento del proprio partito. Ambedue, infine, da un lato adottano modelli populistici (vedi il raddoppio delle pensioni minime da parte di Berlusconi e gli 80 euro da parte di Renzi) e, dall’altro, sono più ben disposti verso la Confindustria che non verso i sindacati, come la battaglia sull’articolo 18 dimostrerebbe.
Insomma l’uno è l’epigone dell’altro e tanto basta per indurre sussiego e orgoglio ideologico in chi, negli ultimi vent’anni, ha vissuto negli uffici dei partiti, persuaso di svolgere "lavoro politico" ma senza accorgersi di ciò che stava maturando nella società italiana. E che "nessuna scuola di partito" gli ha evidentemente fatto capire.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:16