
L’europarlamentare Simona Bonafé, che di Matteo Renzi è fedelissima, lo dice senza girarci troppo intorno: “Il partito di massa come lo abbiamo conosciuto, è un’eredità del secolo scorso; è morto e sepolto”. Anche il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini ricorda i dati elettorali: “Qualcuno preferisce avere 400mila tessere e poi prendere solo il 25 per cento?”. Insomma, nell’entourage del presidente del Consiglio (e segretario del Partito Democratico) Renzi in apparenza almeno, si fa spalluce: che gli iscritti siano precipitati da mezzo milione ad appena centomila, è cosa che non inquieta, non preoccupa. Di più: è cosa che non interessa, la questione lo annoia. Vuoi mettere una tessera con un tweet? Vuoi mettere un militante con un annuncio su Facebook?
Emanuele Macaluso, che tante ne ha viste e ha attraversato le mille stagioni travagliate di questo paese, forte della sua esperienza sorride: "E’ una sciocchezza, una stupidaggine. I problemi oggi sono enormi, come del resto nel ‘900, e coinvolgere e conquistare le persone sono intorno a un’idea, a una visione del mondo, attiene al modo di concepire la democrazia: ieri come oggi". A Renzi, dice Macaluso, non importa nulla del partito, non gli interessa avere uno strumento che orienti la comunità: “Ma attenzione, tutto questo nasce negli anni in cui si decise di fare le primarie. Se il leader viene eletto dall’iscritto, ma anche dal cittadino, l’iscritto cosa ci sta a fare? E infatti non si iscrive”.
Cosa ribatte a questa osservazione lo stato maggiore del Pd? Che grazie a Renzi e alla sua politica, al suo modo di farla, hanno conquistato il 41 e passa per cento. Vero, ma a patto di aggiungere una “piccola” postilla, importante ma che sembra nessuno tenga conto: che a votare alle ultime elezioni c’è stata un’altissima percentuale di elettori che non ha voluto esercitare il suo diritto di voto: l’affluenza alle urne si è attestata al 57,22 per cento (contro il 65,87 per cento del 2009). Il 41 e circa per cento, dunque, è relativo a quel 57,22 per cento; ma il 42,78 per cento del corpo elettorale non ha subito alcun fascino della sirena renziana (e neppure degli altri partiti). Ha detto un sonoro “basta!” in blocco. E dunque anche Renzi ha ben poco di che cantar vittoria.
Un inquietante campanello d’allarme, giorni fa, è venuto dall’Emilia Romagna, regione per decenni mostrata e indicata come modello del governo “altro” di cui la sinistra era capace. Al netto degli scandali scoppiati qua e là, non occorre andare a rivangare il caso di Parma, dove la città, per due volte consecutive ha preferito sindaci “altri” rispetto al candidato indicato dal Pd (prima un’amministrazione di centro-destra, poi l’attuale leadership grillina), o l’ancora più clamoroso caso di Giorgio Guazzaloca, candidato del centrodestra che strappa alla sinistra nientemeno che Bologna. Basta analizzare come sono andate le primarie per scegliere il successore di Vasco Errani per la presidenza della Regione. Ha vinto l’uomo del Pd Stefano Bonaccini, una vittoria netta, 60,9 per cento; ma hanno votato in appena 58mila, l’85 per cento in meno delle primarie precedenti, quando andarono a votare in 407mila. “E’ un orientamento individuale, non collettivo”, valuta Macaluso. “Un partito, un partito vero, deve avere un progetto politico, che coinvolga migliaia di persone che a quelle idee si ispirano. Un luogo permanente di confronto articolato, di formazione del pensiero, di dibattito. Per il PD non sembra essere un problema. Ma così si amministra solo l’esistente, non c’è il progetto perché non c’è l’elaborazione…”.
Renzi, imperterrito, va per la sua strada. E’ evidente che vuole un partito “leggero”, un PMR (Partito Matteo Renzi) o un PdM (Partito di Renzi), che deve rendere conto lui solo, docile e obbediente, poco più di un comitato elettorale. E il 25 ottobre, mentre i sindacati a Roma scenderanno in piazza per contestare la politica del Governo, lui in contemporanea, convoca a Firenze, la “Leopolda due”: una kermesse che vedrà sul palco tanti renziani e esponenti della cosiddetta società civile, imprenditori, intellettuali di area, inquilini e titolari di salotti più o meno buoni, ognuno una manciata di minuti per dire qualcosa, un grande gong segnatempo, struttura leggera e flessibile, fluida, un po’ comitato elettorale, un po’ manifestazione spontanea, tutto meno che espressione di un partito.
Intervenuto a Loppiano, alla cerimonia per il cinquantesimo anniversario della cittadella dei Focolari, il capo del Governo racconta che la nonna gli diceva sempre: “Chi va piano, va sano e va a Loppiano”. Lasciamo perdere Loppiano, e la salute. Quell’andar piano (mille giorni?) è l’ennesima conferma che tutte le promesse di varare una riforma al mese, promesse resteranno, slide e annunci non sono azione di governo, che per essere tale richiede ben altro; ma il realistico “andar piano” dovrà fare i conti con un’agenda che attende urgenti risposte e soluzioni concrete. Risposte e soluzioni che non ci sono, perché non si ha una visione e non si sa concepire un’azione di Governo delle cose. Manca la squadra, manca la quadra. Come diceva Abramo Lincoln “È possibile ingannare tutti qualche volta e qualcuno sempre. Ma non è possibile ingannare tutti sempre”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:09