
La confusione che regna intorno alla riforma del lavoro la dice lunga sia sulle insofferenze interne al Partito Democratico, sia sull’incapacità del Governo a produrre un provvedimento serio e risolutivo.
Per quel che attiene alle insofferenze, nulla di nuovo, can che abbaia non morde, è dall’inizio che i dissidenti fanno così. Matteo Renzi ha mangiato la foglia e se ne infischia. Sul merito invece, non ci siamo, troppi stop and go, troppe prove di forza con i sindacati, sembra che l’unico obiettivo sia di licenziare un provvedimento costi quel che costi. Sicuramente per Renzi è importante annunciare qualcosa, questo è il suo stile, il suo limite, il suo grande difetto; ma per il Paese no, sarebbe necessaria una riforma del lavoro moderna e condivisa.
Non ci si può, infatti, impantanare sull’articolo 18 che, oggettivamente, non è il grande vulnus del negozio del lavoro. È tutto l’impianto che andrebbe aggiornato per renderlo adatto ad un mondo che non è più nemmeno lontanamente quello dello Statuto dei lavoratori. Va da sé che sia necessario superare il concetto di ritenere bravo chi assuma e schiavista chi licenzi, perché il principio di entrata e di uscita deve avere pari dignità e pari nobiltà se applicato nell’unico interesse di una sana ed onesta gestione della vita economica d’azienda.
Ma al di là di ciò, svecchiare, sfoltire, eliminare le troppe barriere da socialismo reale oggi appare non utile, addirittura indifferibile. Serve di formare rapidamente un tavolo ristretto tra le parti, guardarsi pure negli occhi come dice Susanna Camusso, ma uscire velocemente dalla stanza dopo aver guardato oltre agli occhi dell’altro anche la realtà del mondo odierno. E la realtà dice che bisogna cambiare, punto e basta.
Il Paese sta precipitando, non c’è indicatore che non lo segnali, mentre la gente e le aziende sono letteralmente al lumicino. O il premier capisce e la smette di girare per il mondo come fosse un turista per caso, oppure anche l’effetto Draghi finirà e saranno dolori. Serve di aggredire il debito con vendite straordinarie; pacificare il conflitto senza quartiere fra Stato e contribuenti; mettere mano non ai diritti, ma ai privilegi acquisiti da una montagna di persone; mettere sotto controllo gli enti locali, obbligandoli a non scaricare sui cittadini le loro follie. Serve inoltre di prendere per le orecchie il mondo bancario, imponendogli di erogare credito alle imprese e alle famiglie.
Per farlo è necessario non lo stravolgimento di tutto, piuttosto l’emanazione di qualche decreto (per questo sì che sarebbe necessario), obbligando poi la maggioranza a convertirlo per il bene del Paese e non della corrente o dei gruppi. Bisogna fare presto e fare qualcosa di importante, almeno sul versante fiscale, burocratico, economico e finanziario. Non c’è chiacchiera che tenga in un Paese dove manca la fiducia, dove si vive nell’ansia e non si pagano le cartelle per sopravvivere. Mancano pochi mesi, forse settimane, allo scadere, oppure andremo dritti nel tunnel del commissariamento. A quel punto meglio davvero tornare a votare ed ascoltare il pensiero degli italiani.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:18