
Il disegno di legge sulla diffamazione licenziato dalla Commissione giustizia del Senato (e ora all’esame dell’Aula) estende l’applicazione dell’articolo 57 del Codice penale, in tema di reati commessi col mezzo della stampa periodica, alle testate giornalistiche on-line registrate presso il tribunale, limitatamente ai “contenuti prodotti, pubblicati, trasmessi o messi in rete dalle stesse redazioni”.
Restano fuori, quindi, tutti i siti internet che testate giornalistiche non sono, ivi compresi i blog, così come le stesse testate giornalistiche telematiche che a tale registrazione non hanno provveduto (essendo la stessa necessaria solo nel caso ci si intenda avvalere delle provvidenze economiche per l’editoria: Corte di Cassazione n. 23239/12). Né vengono considerati eventuali commenti (cosiddetti post) offensivi lasciati dagli utenti; utenti che potrebbero essere, in ipotesi, anche gli stessi giornalisti delle redazioni che, anonimamente o servendosi di un terzo, sarebbero così in grado di aggiungere insinuazioni od offese ad un loro articolo, senza dover rispondere di alcunché. Il risultato è che chiunque in Rete può (continuare a) calpestare la dignità di una persona e rimanere, ciononostante, impunito.
Eppure il modo di perseguire efficacemente chi offende via web c’è ed è anche di semplice attuazione. Era stato individuato dai senatori Torrisi e D’Ascola, firmatari di un emendamento al ddl diffamazione, respinto, però, dalla Commissione giustizia. L’emendamento proponeva di applicare l’art. 57 del codice penale, in tema di reati commessi con la stampa periodica, anche alla persona fisica o giuridica che avesse registrato (presso il Cnr di Pisa) il sito tramite il quale il reato veniva commesso, ovvero, in caso di reato commesso tramite un blog (spazio web per il quale non è prevista neanche questa forma di registrazione presso il Cnr di Pisa), nei confronti di colui che si collegava alla rete Internet per gestire lo stesso blog, da individuarsi attraverso l’indirizzo Ip del dispositivo utilizzato per la connessione.
La proposta emendativa aggiungeva, inoltre, che tali soggetti rispondevano del reato in parola anche quando non avessero cancellato, entro 24 ore dalla pubblicazione, scritti inseriti autonomamente dagli utenti, tali da configurare la commissione di reati. Si superava, così, anche l’assurdo principio – su cui è tutto basato il ddl diffamazione – che debba essere il destinatario dell’offesa pubblicata sul web ad attivarsi a difesa del proprio onore e della propria reputazione. È evidente che, se fosse passato l’emendamento in questione, i diffamati via web avrebbero senz’altro avuto uno strumento efficace per far valere i propri diritti. L’auspicio è, quindi, che in Aula il destino di questa proposta emendativa sia ben diverso.
Del resto, anche lo stesso Beppe Grillo, nei confronti di chi intende intervenire sul suo blog, impone il rispetto – pena la (giusta) cancellazione – di determinate regole (divieto di messaggi “anonimi” o recanti un “linguaggio offensivo” o, ancora, un “contenuto razzista o sessista”, ovvero che integrino violazioni di leggi). Perché, allora, non disciplinare, a livello legislativo, la materia? La Rete smetterebbe di essere un mondo dove tutto è permesso, compreso offendere ed insultare, e la dignità di ciascuno di noi verrebbe finalmente salvaguardata. Com’è giusto che sia.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:13