Quella democrazia   che distrugge lo Stato

E’ opinione tanto universalmente creduta vera quanto sicuramente falsa che l’insolvenza mondiale delle banche e degli Stati sia determinata da difetti essenziali della finanza capitalistica e del liberismo economico. Invece, per chi esamina la realtà a lume di ragione, il grande crollo dei crediti dimostra che la democrazia, come abbiamo imparato a conoscerla, è inidonea ad impedire che il popolo si rovini con le sue stesse mani. Dalla premessa che la sovranità appartiene al popolo è stata ricavata la conclusione che al potere del popolo non deve essere posto alcun limite o freno. Ma l’onnipotenza della democrazia risulta, alla luce della teoria politica e della realtà storica, non meno deleteria dell’onnipotenza dei sovrani e degli autocrati.

La democrazia ha fallito non solo per incapacità di controllare i debiti pubblici, anzi per incrementarli, dedita com’è ad inseguire circolarmente i voti che la inseguono, ma anche per inettitudine a farla pagare a chi indebita la cosa pubblica. Il costituzionalismo, cioè la scienza giuridica della libertà, ha significato che, primo, il potere politico non può essere assoluto ma deve essere diviso e limitato; e che, secondo, deve essere tenuto sotto controllo e bilanciato da contrappesi. Tutto questo non basta più. Le mani delle assemblee rappresentative e dei governanti d’ogni livello manovrano i cordoni della borsa erariale con arbitrio e senza responsabilità.

E’ una pura, illusoria, perniciosa finzione quella secondo cui l’elezione punisca i rappresentanti e gli amministratori incapaci e spendaccioni. Capita che ciò accada. Ma l’andazzo è tutt’altro. A tacere che il cambio, sotto questo profilo, di norma non cambia nulla perché farsi belli con i soldi altrui è un’inclinazione diffusa e per i politici da strapazzo, i più amati dal popolo e perciò più numerosi, una passione irrefrenabile. Al glorioso antico costituzionalismo dev’essere dunque impresso un nuovo inizio. Agli eletti dal popolo dev’essere innanzitutto impedito nel modo più categorico di scaricare sui futuri contribuenti, senza filtri, verifiche, limitazioni, gli oneri contratti per il comodo e l’utile dei presenti.

La spesa pubblica a debito dev’essere poi deliberata come se fosse una revisione costituzionale. La Costituzione stessa, infine, deve prescrivere drastici tetti di spesa. Essenziale, comunque, è che vengano preventivamente individuate le autorità supreme da chiamare a rispondere giudiziariamente, sùbito, della violazione di consimili divieti costituzionali in materia di spesa pubblica. Si deve sapere chi va in galera se il bilancio non è in pareggio. Non basta dichiarare ineleggibili gli amministratori locali che non pareggiano entrate e uscite. Se truccare il bilancio di una società privata conduce al carcere, a maggior ragione ne deve spalancare le porte la malversazione dei soldi pubblici.

Il pareggio del bilancio, salvo deroghe eccezionali, di stretta interpretazione, deve tornare a rappresentare un valore costituzionale, nel diritto e nella morale. L’ipocrito appellarsi dei parlamentari e dei ministri alla responsabilità politica si rivela soltanto, alla luce dei fatti, una furbizia per sgravarsi la coscienza da immani colpe, omissive e commissive. La cicala dissipatrice che dissesta i conti pubblici è la stessa che si presenta poi in veste di parsimoniosa formica fingendo di risanarli. Ma il mezzo con cui paga le cambiali precedenti non è altro che una nuova cambiale. Quindi il risanamento non viene fatto onorando il debito ma differendone il saldo, che intanto cresce. Fronteggiano i debiti con i debiti e, ciò nonostante, pretendono di presentarsi al giudizio della nazione come salvatori anziché distruttori. Siccome è stata avallata la prassi che le imprese troppo grandi non possono fallire, per sovvenirle arrischiano il fallimento dello Stato sprofondandolo nell’indebitamento sempre più grande. Come sola aspettativa concreta nutrono la speranza nel futuro.

Il ministro dell’Economia dice: “Quando la casa brucia, bisogna spegnere l’incendio.” Giusto, ma non servendosi della benzina. E poi qui non brucia un appartamento o un palazzo o un quartiere o una città. Hanno preso fuoco intere nazioni. Un immane rogo comune incenerisce le ricchezze finanziarie, dunque anche reali, di centinaia di milioni d’individui. E la risposta agli eventi, l’attuale e la prevista, è sempre la stessa: lo Stato-tampone. Perché condannare gli speculatori, che cercano di fare, come insegnava quel maestro d’etica economica che era Luigi Einaudi, ciò che tutti noi facciamo in piccolo e in grande, cioè trarre lecitamente profitto dalle condizioni di mercato, utilizzando gli elementi fattuali e le previsioni personali? Perché fa comodo ai politici indicare un untore, un capro espiatorio che li salvi dalla sacrosanta indignazione di risparmiatori e contribuenti inferociti. Ma questa giostra, così com’è, non può girare all’infinito.

Se i creditori prendono a diffidare del debitore statale, gli lesinano i finanziamenti e rifiutano di acquistarne i titoli o pretendono interessi crescenti a compenso del maggior rischio di perdere il prestito. Il crac del debito pubblico, come dimostra anche la Grecia, non è scongiurato dall’euro, ma dalla virtù finanziaria della classe politica. Finché i parlamenti e i governi si comporteranno come i promotori della “catena di Sant’Antonio”, i contribuenti possono star certi che le loro tasse e i loro risparmi finiranno in fumo, prima o poi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:12