Burocrazia e giustizia:   il tempo delle riforme

Siamo ancora qui a dircelo, con l’ultimatum sacrosanto di Mario Draghi che è venuto a spiegarci l’esistenza. Se non le fa da solo il Paese, le riforme ce le faranno fare.

Le riforme di cui l’Italia ha bisogno non sono né la finta abolizione del Senato – che toglie il voto agli italiani e amplia il potere delle Regioni che si voleva limitare – né quella elettorale. L’Italia ha fame. Sono necessarie nuove regole per il mercato del lavoro, l’abbassamento drastico della tassazione, l’altrettanto drastico taglio della burocrazia, una giustizia efficiente e funzionante. Queste sono le priorità del Paese.

Posto che per i tagli bisogna avere a disposizione (rendiamoli pubblici) i calcoli e i conti fatti da Carlo Cottarelli sin dall’ottobre 2013, per la giustizia si tratta di una riforma che nessuno farà. Nessuno, in Parlamento e al Governo, è in grado di far sì che i tempi e i modi della magistratura italiana coincidano con quelli del mondo e dell’economia reale, cioè quelli esistenti al di fuori dei tribunali. Andrea Orlando, ministro della Giustizia, ha prodotto prima delle ferie ben dodici punti. Ha detto che “ci sono le basi per fare un buon lavoro”. Chi? Dov’è (il “lavoro”)? Dove sono le basi? Si riferisce ai punti? Non se ne farà niente. Finora ha fatto l’unica cosa che non andava fatta: è andato a trovare Giorgio Napolitano. In uno stravolgimento totale delle regole democratiche, l’attuale ministro della Giustizia si è recato a consulto e probabile redazione per iscritto dei punti. Forse non sa che il capo dello Stato non è il dominus del Governo e neanche del Parlamento. Eppure, colui che dovrebbe disciplinare la giustizia italiana è andato a farsela impartire dal Presidente della Repubblica.

D’altra parte, ormai è certo, si fa il contrario di quello che si dice. Forse l’attuale Governo non ha sentore della crisi reale perché non gli è andata mai così bene, tutti a Palazzo Chigi a carico degli italiani (Renzi però si divide con Forte dei Marmi, abbandonate quest’anno le feste di paese cui era avvezzo). Tornando alla riforma della giustizia che non verrà, anche lì – a chiacchiere – tutti dicono di volerla più efficiente e di qualità, ma in realtà nessuno ha presentato o quantomeno scritto un vero testo, o disegno di legge o un decreto. In realtà basta leggere poche oscure righe di una futura stella del Consiglio superiore della magistratura che, dalla Cassazione, si interroga sulla giustizia definita come “assente” (certo, se invece di dedicarsi anima e corpo al proprio “lavoro” scrive articoli ai giornali). Testualmente si sostiene che “non si tratta di limitare l’interpretazione della legge, ma di rimettere al centro il limite che separa la sentenza che applica la legge dalla scelta politica che scrive la legge stessa”. Che vuole dire? Mistero.

Al di là della subliminalità di detto messaggio (“subliminale” è il sostantivo passepartout che rende tutto oscuro e il gioco è fatto), è bene che il giudice applichi la legge e non la interpreti. E, soprattutto, che nell’applicarla non si basi né tantomeno orienti sulle scelte politiche a monte che non competono al corpo giudiziario ma a quello legislativo, legittimo ed eletto. Non sarebbero neanche ammessi suggerimenti all’orecchio del ministro in carica, quando invece si legge sui giornali di tutto e non si vede proprio perché una riforma della giustizia debba poi essere concordata con i magistrati: che facciano il loro mestiere. È evidente da quelle “prose” che il ministro è attendista, e il gioco sarà fatto (anzi, sfatto) e la tanto agognata riforma non arriverà mai. Teniamocela così la giustizia che allontana chiunque dal nostro Paese e andiamo verso il disastro in santa pace.

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:18