Incognite strategiche  del Governo italiano

Mai come in questi giorni si ha modo di constatare come le dottrine di politica economica siano insufficienti a determinare risultati prevedibili. Fortemente supportata dalla pubblica opinione italiana e in parte francese, la posizione ufficiale del nostro Governo, rumorosamente esposta a Strasburgo da Matteo Renzi, parte dal presupposto tutt’altro che dimostrato secondo il quale la “flessibilità” nei conti nazionali rispetto ai vincoli europei, sarebbe l’unica strada da seguire per ridare tono all’economia italiana. La parole chiave, proferita coralmente e adottata, sebbene in un quadro molto diverso, anche dal governatore della Bundesbank, è “crescita”.

La crescita che tutti invocano sarebbe la soluzione della crisi e, ovviamente, lo è, ma essa è il fine su cui nessuno discute, non il mezzo. È cioè chiaro che si tratta di capire come innescarla. Già qui c’è però una dimensione non economica che va sottolineata: i politici dell’economia tedesca, infatti, stanno svolgendo il ruolo degli “untori” manzoniani, ossia dei colpevoli e interessati affamatori degli altri popoli europei. Si tratta di una legge sociologica vecchia come il mondo per la quale, se le cose vanno male, lungi dal cercare le proprie colpe (vedi il mastodontico debito pubblico che noi stiamo deliberatamente accumulando da molti decenni) è meglio individuare i cospiratori, più o meno latenti, assumendoli come il nemico da sconfiggere in modo da recuperare il nostro radioso e felice destino. Purtroppo, una simile “teoria” ha ben poco a che vedere con le dottrine economiche sia keynesiane sia classiche ma, di fatto, Italia e Francia sembrano persuase davvero che allargando i vincoli di contabilità nazionale tutto si risolverebbe.

Tuttavia, nessuno sa dire quale sia il moltiplicatore di Pil che deriverebbe da una riduzione dei vincoli in questione, mentre è facile prevedere che, da noi, una simile apertura verrebbe percepita come un “tesoretto” su cui ogni categoria sociale vorrebbe mettere le mani. Se è infatti indubbio che l’allargamento delle capacità di spesa di uno Stato induce nel breve periodo ricchezza monetaria e lavoro, è però altrettanto certo che, con manovre di questo tipo, si sa da dove si comincia ma non dove si finisce.

Anche qui, c’è una variabile che, per l’Italia, è piuttosto un’incognita: anche ammesso che l'Europa ci conceda di “sforare”, siamo proprio sicuri che da noi vi sia, magari sopita e frustrata ma desiderosa di rialzarsi, la necessaria propensione agli investimenti? La storia italiana - ma anche quella di altri Stati mediterranei - non é la storia di una società orientata al capitalismo industriale. A parte il caso, episodico ed effimero, del boom di mezzo secolo fa, dall’unità d'Italia la nostra industria ha visto poche, anche se lodevoli, iniziative imprenditoriali di grandi dimensioni e molte piccole realtà la cui gracilità è più che mai oggi evidente.

Il fatto è che la nostra cultura industriale, potenzialmente non inferiore a quella di qualsiasi altra società, è stata per troppi decenni assediata e condizionata da dottrine, a sfondo confessionale oppure marxista, che non hanno fatto altro se non indurre la persuasione che la ricchezza sia una sorta di premessa del peccato o il risultato dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Il risultato è che disponiamo di validissimi ingegneri, professionisti, chimici che vanno all’estero e di cui pochi imprenditori, evidentemente, sentono il bisogno perché la propensione all’innovazione è la vera risorsa che ci manca ed essa non dipende dalla politica tedesca.

Una risorsa che mancherà ancora per molto tempo se le riforme che inevitabilmente siamo chiamati ad attuare, renderanno improponibili i salvataggi, a carico dello Stato, di imprese che dovrebbero nascere non più sotto il segno del paracadute a spese dei contribuenti, come è accaduto per troppo tempo, bensì sotto quello dell’indigesta ma strategica propensione a vedere lontano e ad accettare il rischio.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:08