Le grandi riforme, <br / > una trappola per due

Sapete qual è “l’oggetto transizionale” (tipo “coperta di Linus”) di Matteo Renzi? Il bottone della sua giacca. Che deve stare sempre attaccato (pardon: abbottonato), come il suo proprietario, sempre nevroticamente connesso con il resto del mondo, meno che con se stesso. Lo avete osservato bene, il buon Matteo? Passa lo sguardo su cose, persone ed eventi come un padrone delle ferriere, che vede solo sudditi attorno a sé, ma mai suoi pari, dotati di pensiero autonomo e senso critico. Questo atteggiamento da “conquistadores”, che fa non fa prigionieri, lo si è verificato a partire dalle nomine di Governo, per finire alle candidature per le europee e alle scelte di tutti gli amministratori locali, che brillano per la loro mancanza di autonomia essendo dei meri ripetitori (soprattutto mediatici) del Renzi-pensiero.

Le loro dichiarazioni pubbliche sono un misto di banalità e di “colportismo” di sinistra (“colporteur” è il venditore porta-a-porta), caratteristici di chi non sa far altro che affrontare in modo demagogico i gravissimi nodi irrisolti dell’attuale crisi italiana. Sarà per questo che, personalmente, mi trovo a configurare il renzismo come l’ennesimo tentativo di vendere sogni a buon mercato al posto della dura realtà. Perché ormai è chiaro a tutti che dalle riforme in cento giorni si è passati a un suo multiplo temporale di dieci, senza che questo Paese, stanco e sfiduciato, abbia contestato il conto a questo suo oste un po’ imbroglione. Perché, volendo tagliare seriamente la spesa pubblica significa, di fatto, ridurre drasticamente organici e privilegi di quel pubblico impiego che rappresenta, tuttavia, il più vasto bacino elettorale dello stesso Partito Democratico!

Così, Renzi sta tentando di nascondere il suo inevitabile, futuro fallimento attraverso la creazione (o l’annuncio) di una nuova organizzazione -quale la riduzione delle Authority, l’istituzione del Supercommissario anticorruzione, ecc. - per rimediare al disastro della macchina pubblica. Tutto ciò con il risultato scontato di dilatare, anziché ridurre, l’impiego pubblico stesso, lasciando tra l’altro le cose come stanno, dato che servirebbero percorsi seri e complessi di riqualificazione per moltissimi impieghi pubblici obsoleti e sostanzialmente inutili. Per esempio: che cosa ci fanno migliaia di partecipate degli enti locali, che sono carrozzoni improduttivi e clientelari, con perdite annuali di gestione per decine di miliardi di euro?

E poi, sul versante della legislazione, perché non mettere in cantiere pochi testi unici che disboschino migliaia e migliaia di norme di settore inutili, contraddittorie e paralizzanti? Come si diceva tempo fa, i cicli di durata ventennale costituiscono un po’ il karma della politica italiana. Il più recente iniziò nel 1994 con Silvio Berlusconi, mentre nel 2014 ha preso avvio, con ogni probabilità, un analogo interregno del Renzi-pensiero e del relativo potere bianco-rosso. Ambedue (B. e R.) appaiono fondarsi sulla falsa prospettiva che sia necessario vincere le elezioni per cambiare questo Paese. Niente di più falso.

Si veda, in merito, analogo ragionamento di Galli della Loggia sull’edizione del Corriere della Sera del 29 giugno: il potere di riforma rimane un miraggio, in assenza di idee-forza che rivoluzionino il modo di pensare e di esistere dei vari contropoteri e interessi trasversali, che si oppongono a qualsiasi radicale cambiamento in profondità della società italiana contemporanea. Renzi, come Berlusconi, non può e non vuole disfarsi di quella maggioranza elettorale (su cui insiste il suo 40 per cento) che, in modo diretto o indiretto, fonda le sue fortune sulla spesa pubblica e sull’assistenzialismo di Stato, vincendo in buona sostanza tutte le elezioni: dal 1948 a oggi.

Così da mesi ci si balocca sugli annunci ad effetto, su riforme scritte nell’acqua, mentre i testi di legge pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale soffrono del male antico della loro inapplicabilità, di fatto e sostanziale, restando in balìa di una classe burocratica che non vuole saperne di sacrificare i propri privilegi. Un esempio per tutti: la riduzione, per un fattore “1:10.000”, dei centri di spesa, che dovrebbero passare a soli 30/40, dagli attuali trentamila e passa. La legge relativa è in vigore ma risulta a tutt’oggi del tutto inapplicabile, in quanto mancano le risorse organizzative per l’aggregazione degli acquisti degli 8mila comuni italiani e di molti altri enti pubblici, territoriali e non.

Così, per non far scoprire troppo in fretta la propria irrilevanza, il potere renziano (come fece, all’epoca, quello berlusconiano) utilizza tutti gli strumenti dell’ipnosi di massa per folgorare il cielo con i suoi giochi pirotecnici, facendo apparire, ad esempio, un successo epocale della politica europea italiana i risultati, invero scadenti, dell’ultimo Consiglio Europeo di Ypres, in Belgio. Perché, come tutti ben sanno, abbiamo ottenuto dai nostri partner un vago impegno di clemenza sul rigore di bilancio, contro la promessa ad operare concretamente, in casa nostra, le famose riforme strutturali.

Ovvero, ci siamo impegnati a rivoluzionare l’organizzazione del lavoro, della giustizia e della Pubblica amministrazione; nonché a mettere un freno alla corruzione ed a risanare i conti pubblici, attraverso il rilancio della crescita, la detassazione degli investimenti produttivi e una drastica applicazione dei principi della spending review. Esattamente le stesse cose, gli stessi impegni che tutti i Governi italiani (da Maastricht in poi) hanno detto di voler mantenere, senza aver mai fatto un solo passo avanti, tant’è vero che il nostro rapporto debito/Pil ha raggiunto e superato la soglia record del 130 per cento!

Allora ecco che, obbedendo ad un preciso ordine di scuderia, tutta l’attenzione mediatica si concentra sul nulla assoluto, come la riforma in senso monocamerale del Parlamento italiano, dove si scontrano, nella più totale indifferenza dell’opinione pubblica italiana, una precaria maggioranza favorevole ad un Senato delle Regioni, contrastata da una minoranza trasversale, che ne rivendica l’elettività, con l’ulteriore corredo dell’immunità parlamentare. E tutti lì, a battersi il petto, sperticandosi in ridicole analisi sulla prospettiva futura di consiglieri regionali corrotti, che vengono salvati dalla galera grazie al loro doppio incarico di senatori.

Nessuno che dica, in merito, una cosa di puro buon senso: ovvero, che l’immunità s’intende esclusivamente a salvaguardia delle idee che si esprimono, mentre se si è rubagalline, mafiosi, ecc., si deve venire inquisiti e giudicati come qualsiasi cittadino comune. Altra riforma di facciata è quella della legge elettorale. E qui si apre un capitolo molto interessante del renzismo, che vuole essere un vero e proprio “mandarinato”, come lo fu e vorrebbe continuare ad esserlo quel che resta del berlusconismo. L’Italicum, infatti, perpetua e accentua il potere del leader nella scelta degli eletti (selezionati in base alla loro fedeltà, anziché per merito oggettivo), facendo della maggioranza parlamentare - conquistata grazie a consistenti premi elettorali! - una vera e propria cinghia di trasmissione della volontà del segretario o del presidente del partito.

Grillo l’ha capito benissimo e cerca di ostacolare il cammino della nuova legge elettorale, spingendo per un anacronistico proporzionalismo con il ripristino delle preferenze. Comunque vada, dando per scontata la tenuta dell’accordo sull’Italicum tra B. e R., la reazione dell’elettorato sarà, con ogni probabilità, un sempre più accentuato astensionismo e la tenuta contestuale del blocco grillino di protesta sociale minoritaria. Viceversa, una legge che avesse come modello quello disegnato su piccoli collegi uninominali, a turno unico, potrebbe più utilmente richiamare gli aventi diritto alle urne, avvicinando gli eletti ai loro elettori, in modo da colmare il gap di fiducia oggi esistente tra politica e cittadini. Ma tutto questo probabilmente Renzi non lo sa (o, forse, lo sa benissimo?).

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 20:22