
Il ministero degli Affari Esteri è una complessa struttura che svolge un’enorme quantità di azioni in nome e per conto dello Stato e dei cittadini italiani, anche coloro che vivono all’estero. Il ministero è anche chiamato “Farnesina” dal nome del terreno su cui insiste, chiamato Orti della Farnesina perché appartenuto a Paolo III Farnese. La Farnesina si divide in diverse direzioni generali: in particolare, la direzione generale che dialoga con la rete diplomatica e consolare all’estero e con i nostri connazionali che vivono fuori Italia è la direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie. È un compito importante e difficile, quello che spetta al suo direttore, l’ambasciatore Cristina Ravaglia. Come abbiamo già scritto in precedenza, il ministero degli Affari Esteri svolge le proprie numerose attività pesando sul bilancio dello Stato per lo 0,2 per cento: una quota che è di gran lunga inferiore a quella degli omologhi ministeri degli Esteri dei Paesi occidentali con i quali solitamente ci confrontiamo. Non è una lamentela, ma un dato di fatto che va conosciuto.
Ambasciatore, all’interno del ministero degli Affari Esteri lei è da ormai quasi due anni alla guida della direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie. Quali sono i compiti della vostra struttura?
La direzione generale ha due anime distinte. Per quanto riguarda gli italiani all’estero, seguiamo l’attività dei nostri Consolati, innanzitutto i servizi consolari ordinari come passaporti, registrazioni anagrafiche e cittadinanza. Poi curiamo i rapporti con le organizzazioni rappresentative delle collettività italiane all’estero, i Comites e il Cgie, ed eroghiamo i contributi agli enti gestori impegnati nell’insegnamento della lingua italiana all’estero, originariamente destinato ai discendenti degli emigrati, ma che ora sta mutando, con un maggior inserimento nei curricula scolastici locali come lingua di cultura. Gestiamo inoltre le elezioni all’estero: il voto per le elezioni politiche, da ultimo nel febbraio dello scorso anno, e quello per le elezioni europee, lo scorso maggio, limitatamente agli italiani residenti nei Paesi dell’Unione Europea. Inoltre ci sarà, speriamo presto, il voto per le elezioni dei Comites. Ancora, seguiamo l’assistenza ai connazionali all’estero. Ogni anno sono circa 10mila i casi di italiani che, per vari motivi, hanno all’estero necessità di assistenza dalle nostre ambasciate o dai nostri consolati, coordinati da noi qui, che teniamo anche i contatti con le famiglie e – se del caso – con gli avvocati. Di questi, circa 3400 sono le persone detenute; frequenti anche le situazioni di rimpatrio per motivi di salute. Seguiamo anche la cooperazione giudiziaria, tra cui rogatorie ed estradizioni. Ancora, ci occupiamo del delicato tema dei bambini contesi all’estero. Seguiamo le attività culturali a favore delle collettività italiane nel mondo. Infine, sosteniamo l’Inps nel suo rapporto con i pensionati all’estero. Gli stanziamenti per le nostre azioni hanno subito negli ultimi anni notevoli tagli: oggi siamo chiamati a fare ancora molto, ma con molto meno. È stata una dolorosa occasione che ci ha portato a dover razionalizzare le nostre iniziative. Poi c’è la parte delle politiche migratorie, che comprende due principali settori di attività. Il primo è quello dei visti: è da qui che vengono coordinati e gestiti i visti rilasciati ai cittadini stranieri che vogliono entrare in Italia. Lo scorso anno il numero delle domande di visto di ingresso in Italia, un numero in costante crescita, è stato di circa due milioni e duecentomila: il che vuol dire che ogni 15 secondi è stato emesso un visto. I dati sono impressionanti: si pensi che per questa attività di rilascio visti, che è ovviamente a pagamento per gli stranieri, lo scorso anno sono stati incassati – non dal ministero degli Affari Esteri, perché le percezioni vanno direttamente al ministero dell’Economia – circa 104 milioni di euro, che si aggiungono all’indotto in termini di turismo e affari (e occupazione) per le nostre imprese. Infine, la seconda attività nell’area delle politiche migratorie riguarda la cooperazione bilaterale e multilaterale in campo migratorio - ad esempio, gli sbarchi a Lampedusa sono di competenza del ministero dell’Interno, ma siamo noi a negoziare nelle diverse sedi con i Paesi dai quali provengono gli immigrati - e alcuni risvolti del delicato tema delle adozioni internazionali.
In base a quanto ha avuto modo di constatare, quali sono le principali differenze e quali invece le principali similitudini tra gli italiani che vivono in Italia e quelli che vivono all’estero?
Certamente nella mia esperienza ho rilevato un grande attaccamento al nostro Paese da parte dei nostri connazionali che vivono all’estero. Direi che la principale differenza con gli italiani che vivono in patria è che a volte coloro che sono all’estero, specialmente se residenti e ormai cittadini di Paesi lontani, hanno dell’Italia un’idea in un certo qual modo romantica, ferma a quello che loro ricordano o che gli è stato raccontato nelle loro famiglie. L’Italia è naturalmente cambiata molto, tutto il mondo cambia, e a volte le grandi distanze non permettono di tornare spesso o quanto si vorrebbe: e così il ricordo resta in un certo senso fermo a tempi ormai andati.
Il nostro Paese vive tempi difficili: tra spese da tagliare, innovazioni da introdurre, burocrazia da combattere; anche la Farnesina sta cercando di reggere ad un compito difficile con risorse molto scarse. La comunità italiana negli Usa ha visto chiudere il Consolato di Newark ed altri si sentono a rischio. Premesso che sono decisioni politiche che non vengono prese dal suo ufficio, cosa possiamo dire ai nostri concittadini in America a proposito delle difficoltà che si incontrano nella razionalizzazione di un budget già molto ridotto?
La chiusura delle sedi consolari è un’operazione che fa male a tutti: nessuno prende questo tipo di decisioni affrettatamente. Per noi, le sedi consolari costituiscono parte integrante e fondamentale del nostro lavoro. La chiusura di una di esse comporta stravolgimenti e una diversa, maggiore redistribuzione del lavoro per coloro che operano nelle vicinanze della sede che viene chiusa: per cui quando le condizioni economiche con le quali dobbiamo confrontarci obbligano la Farnesina ad agire in questo modo, non lo facciamo certo a cuor leggero. Ma il nostro Paese sta modificando radicalmente le dinamiche della propria spesa, e in questi cambiamenti il ministero degli Affari Esteri non è stato affatto risparmiato: negli ultimi anni il numero dei nostri impiegati è sceso del 25 per cento, perché quanti sono andati in pensione non sono stati sostituiti se non in minima parte. D’altronde l’Italia è nel mezzo di una forte e dolorosa, ma necessaria, spending review: vengono chiusi piccoli ospedali, accorpati tribunali sul territorio, ognuno sta facendo la sua parte e sta sopportando sacrifici e questo non può non riguardare anche gli italiani all’estero. D’altra parte, da qualche anno abbiamo investito molto nell’innovazione tecnologica e informatica per assicurare i servizi consolari e crediamo che questo sarà sempre più un modello utile ed efficace per rispondere alle esigenze dei nostri connazionali, unitamente alla disponibilità ed alla competenza del personale che opera nelle nostre sedi. Ne è un esempio lo strumento del “funzionario itinerante”, ovvero una postazione mobile per raccogliere fuori dal consolato le impronte che vanno inserite nei nuovi passaporti.
Le rappresentanze degli italiani all’estero sono oggi divise tra Comites (Comitati degli italiani residenti all’estero), Cgie (Consiglio generale degli italiani all’estero) e parlamentari eletti. Si tratta di rappresentanze nate in momenti diversi e che forse andrebbero ripensate organicamente. È una materia molto delicata. Qual è la situazione attuale e cosa si prospetta per il futuro?
I Comites sono nati nel 1985 come organismi rappresentativi della collettività italiana, eletti dai connazionali residenti all’estero in ciascuna circoscrizione consolare ove risiedono almeno tremila connazionali. Rappresentano quindi direttamente la singola comunità e interagiscono costantemente con le rappresentanze diplomatico-consolari del luogo. Sono composti da 12 o 18 membri, a seconda della consistenza della collettività che li elegge. Il Cgie, il Consiglio generale degli italiani all’estero, è nato nel 1989 come organo di consulenza di Governo e Parlamento, formato da 94 membri, di cui 65 eletti dai Comites e dalle associazioni italiane e 29 di nomina governativa su designazione di partiti, patronati, grandi associazioni e altri enti. I parlamentari eletti dai connazionali residenti all’estero e iscritti all’Aire sono di più recente istituzione, grazie alla legge del 2001 che previde l’elezione di 18 deputati e 12 senatori nelle quattro ripartizioni della nuova Circoscrizione Estero: Europa; America Settentrionale e Centrale; America Meridionale; Africa, Asia e Oceania. Come giustamente accennava, si tratta di forme di rappresentanza diverse nate in momenti diversi. La materia, effettivamente delicata, è allo studio delle sedi politiche che hanno la responsabilità e il potere di apportare le modifiche di legge: si tratta dunque di scelte di competenza del Parlamento, delle quali a noi spetta l’attuazione.
C’è qualcosa che l’ha piacevolmente sorpresa nel corso di questi due anni di stretto e quotidiano rapporto con i nostri connazionali nel mondo?
In questi due anni e in passato quando sono stata vonsole a Buenos Aires e poi a Monaco di Baviera, un aspetto fondamentale che ho avuto modo di affrontare, e la cui importanza mi è sembrata evidente, è quello della nostra lingua. L’italiano è e sempre più deve essere lingua di cultura, oltre che di emigrazione: mezzo di comunicazione ma anche portabandiera della nostra italianità. Per i nostri connazionali all’estero, la lingua ha e sempre più dovrà avere una grande importanza. Le generazioni che partirono furono quasi costrette a dimenticarla, prese dalla necessità di integrarsi nei Paesi di arrivo, con poche opportunità di praticarla se non nell’ambito familiare, dove spesso si parlava il dialetto. I loro figli nacquero nei nuovi Paesi, e comprensibilmente fecero di tutto per integrarsi là, con il risultato di tralasciare spesso la lingua delle loro origini. La terza generazione, che ha a disposizione spesso maggiori possibilità economiche per viaggiare e comunicare attraverso le nuove tecnologie, sta riscoprendo l’interesse e la curiosità per il Paese dei nonni, per le sue origini e per la lingua italiana. Va fatto di tutto per preservare questo tesoro e renderlo sempre più condivisibile, disponibile per l’apprendimento e vantaggioso per il proprio futuro lavorativo e il proprio bagaglio culturale. La curiosità riguarda in qualche modo proprio la lingua: non tutti sanno che in Crimea vive una piccola comunità, composta da persone - di discendenza pugliese - che ormai non hanno più la cittadinanza italiana ma ne conservano orgogliosamente le origini, che continuano imperterriti a difendere l’uso dell’italiano. Cerchiamo di mantenere vivo questo entusiasmo inviando loro libri, al fine di non disperdere questo piccolo patrimonio culturale che sopravvive grazie alla passione per l’Italia da parte di quello che è solo un esempio dei tantissimi italiani che vivono all’estero, ma sono orgogliosi e felici di poter rivendicare e mostrare le proprie origini.
Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 20:21