
Sapete qual è il gioco preferito dagli italiani dopo il calcio? Il “dagli all’untore” di manzoniana memoria. Quindi, tutti a giocare con il kit dell’investigatore, perché, occorre dire, la realtà supera spesso la fantasia. Oggi è il turno del killer della povera Yara, una delle tante adolescenti dal futuro spezzato e negato. Ma a lei si accompagna -e la precede - una lunghissima scia di delitti al maschile, ai danni di mogli, amanti, fidanzate, sorelle e madri. Per la gioia dei criminologi e degli psichiatri (purtroppo la mente malata non dà avvisi precoci come accade per il cancro!) il femminicidio è in rapida ascesa e, su questo fenomeno, non si contano ormai più le indagini e i saggi di sociologia e psicologia clinica, che fanno il paio con una miriade di analisi fatte in casa da parte di decine di milioni di frequentatori della Rete. Già perché, ad oggi, proprio nessuno è in grado di valutare e quantificare l’effetto-domino dell’emulazione e del delirio di onnipotenza, che assale persone insospettabili di ogni ceto e condizione sociale, soprattutto di genere maschile. Distrutti tutti gli altri miti atavici (oggi sterminati dal Dio Denaro), rimane in piedi quello intramontabile del poter disporre, a proprio arbitrio, della vita degli altri, massima espressione dell’egocentrismo e della componente narcisistica che si accomoda (come un aspide insidioso) in tutti noi.
Nel kit di Sherlock Holmes non può naturalmente mancare la prova principe: la traccia del Dna dell’assassino sul corpo o sui poveri resti della/e sua/e vittima/e. L’impronta genetica ha soppiantato da tempo quella “digitale”, intendasi delle dita della mano, visto che oggi come tale, rimane in auge quella conservata in un oceano di byte che affollano e stratificano i segreti dei nostri computer, smartphone, tablet, ecc. Lì ormai, più che altrove, si nascondono gli “Orchi”, quelli iscritti a siti pedopornografici protetti da barriere digitali praticamente invalicabili, le cui impronte disgustose rimangono, però, nelle memorie rigide e mobili delle loro biblioteche personali computerizzate. Vedrete che, prima o poi, verranno fuori fior fiore di agenzie private di investigazione, i cui collaboratori e gestori saranno dei superesperti in algoritmi di decriptazione e di ricostruzione di data-base originari, per permettere a mogli e parenti stretti di indagare sulla parte in ombra più inquietante dei propri cari. Io, personalmente, non condivido l’erezione di barriere invalicabili della privacy, nel caso di figli (non importa se maggiorenni), di mariti, fratelli, ecc., nei confronti dei quali sussista un ragionevole dubbio a proposito dell’uso di sostanze stupefacenti e di una sessualità morbosa e disturbante.
Se qualcuno per tempo avesse potuto curiosare all’interno di certi profili di Facebook, che facessero riferimento sempre agli stessi Ip, avrebbe potuto scoprire per tempo e disinnescare, di conseguenza, i rischi concreti di uxoricidio o di infanticidio, o di entrambi, come dimostra l’ultimo, tremendo caso, di un padre-marito che ha sterminato tutta la sua famiglia nella speranza di godersi la sua nuova, recalcitrante amante! Ora, a causa dell’errore imperdonabile commesso dall’attuale ministro dell’Interno, tutta l’opinione pubblica italiana si sta torcendo fino allo spasimo, per collocarsi, con mille distinguo e ragionamenti, nel campo degli “innocentisti” o dei “colpevolisti” del presunto assassino di Yara Gambirasio. Tristemente, però, il tutto è vezzeggiato e favorito da una pletora di veri, finti e falsi “super-esperti” (avvocati, genetisti, magistrati inquirenti e forze dell’ordine), chiamati a fare da consulenti a un planetario tribunale mediatico, la cui risonanza giova, innanzitutto, a coloro che vengono chiamati a testimoniare. Perché una prova maestra come il Dna dice del suo legittimo (e unico) possessore una semplice, elementare verità: ovvero, che “lui” era lì; che ha interagito con l’esistenza stessa della vittima.
Perché, per negare quella prova maestra, il presunto colpevole non ha che due vie d’uscita: un alibi a prova di falsificazione, che lo veda, il giorno dell’assassinio, lontano centinaia di miglia dal luogo del delitto. In alternativa, non potendo esibire alcun alibi, il presunto colpevole deve dimostrare “lui” che esista qualcuno, provvisto di un talento luciferino e di un odio sconfinato, nei suoi confronti, che abbia macchiato con il “suo” sangue gli indumenti intimi della ragazzina, dopo averla trucidata e trasportata altrove per nasconderne il cadavere. Il resto sono solo ridicole supposizioni prive di fondamento probatorio, viste - se non altro - le testimonianze e le prove indiziarie sfavorevoli che stanno emergendo in questi giorni a carico del muratore.
Io, però, desidero ancora soffermarmi su due aspetti: il primo riguarda la possibilità di una sacrosanta azione di risarcimento danni (alcuni milioni di euro vanno bene!) nei confronti di chi, a torto o a ragione, ha “sbattuto il mostro in prima pagina”! Perché, se tutto fosse stato semplicemente ricondotto alla riservatezza del processo (e, direi, in parte lasciato nei verbali secretati dai giudici - come la circostanza del figlio illegittimo! - per la salvaguardia doverosa della privacy di parenti e altre persone coinvolte, assolutamente estranee al delitto!), i cronisti di cronaca giudiziaria se ne sarebbero occupati al tempo giusto e con le modalità corrette.
Il secondo aspetto riguarda quella che è anche una mia antichissima battaglia di civiltà. Voglio e pretendo, infatti, che la politica dibatta apertamente - senza pregiudizi e tabù di alcun genere - sulla bontà, o meno, di costituire una banca dati nazionale del Dna di “tutta” la popolazione residente. L’assoluta maggioranza delle persone, infatti, non avrebbe proprio nulla da temere, mentre un simile dato oggettivo (contenente i profili genetici di tutti i cittadini italiani, da custodire in “casseforti” digitali a prova di hacker) costituirebbe un formidabile deterrente per chi intendesse macchiarsi di un delitto o di un grave reato contro la persona. Per di più, nei casi di incidenti gravissimi, in cui si riveli impossibile conoscere l’identità delle vittime, la banca dati generalizzata dei Dna permetterebbe ad investigatori e famiglie di venire a conoscenza dell’identità dei deceduti. Certo, hanno mille volte ragione tutti coloro che temono la vendita dei vari profili genetici ad aziende private e terze persone interessate, che abbiano interesse a valutare lo stato di salute e i caratteri di ereditarietà di un determinato individuo.
Tuttavia, penso che l’accesso al database nazionale delle impronte genetiche debba essere solo di tipo comparativo, riservato al magistrato e agli organi di polizia giudiziaria, previa autorizzazione alla consultazione relativa stabilita da un magistrato togato apicale terzo. Per dovere di trasparenza, poi, è assolutamente necessario che, in corrispondenza della singola impronta genetica, siano conservate in modo permanente tutte le tracce di chi ha autorizzato e di chi ha consultato quel reperto stesso, con la connessa tempistica. A ciascun cittadino, inoltre, deve essere consentito, in ogni momento e a sua discrezione, l’accesso al proprio “record” genetico (eventualmente oscurato dal magistrato inquirente), per un tempo strettamente limitato alle necessità dell’indagine, qualora vi siano inchieste in corso di tipo penale a carico dell’interessato. Anche qui, come sempre, la “Politica” non ha nulla da dire o iniziative da intraprendere?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:21