Delitti in televisione:   sabba dei numeri uno

Che domenica bestiale! Per non dire del martedì! Un bagno di sangue in una villetta ispirata al Mulino Bianco con tre morti sgozzati, e l’assassino che si fa la doccia e poi va a vedere la partita di calcio al bar. Poi la scoperta dell’assassino di Yara Gambirasio, grazie alla prova irrefutabile del Dna. Un viaggio nell’orrore quotidiano.

Al telespettatore che si fosse trovato l’altro ieri sbalzato nel gorgo dei servizi speciali sulla casa della famiglia felice di Motta Visconti e sul caso Yara non sarebbe sfuggita una notazione fuggevole eppur pregnante, quella di imbattersi in numeri uno. Era, è una caratteristica dell’infame retaggio della spettacolarizzazione di un evento sanguinoso rimasto senza colpevole per 4 anni e poi, zac, di colpo e immediatamente dopo l’annuncio di Angelino Alfano, lo scatenarsi delle forze del male e l’esplosione a più stadi delle pulsioni irrefrenabili del circo mediatico giudiziario.

Il ministro degli Interni, con una mossa di strategia comunicativa all’incontrario, ha acceso, per dir così, la miccia della bomba nella certezza che i frammenti si spargessero lontani, e invece hanno fatto la giravolta del boomerang colpendolo in faccia ma, nel suo caso, sotto forma di torta. Non è che vogliamo infierire sul nostro, ma ci chiediamo e gli chiediamo: chi te l’ha fatta fare quella mossa omettendo almeno due dettagli: la mancata qualifica del colpevole, ovvero il termine “presunto”, e il non accordo preventivo con la Procura. Dopodiché Alfano può tranquillamente giustificarsi accusando ben altro e ben altri accorsi dopo di lui, intenti a spargere schegge di varia entità e pericolosità, generalmente di fango. Vent’anni e passa di fango schizzato contano, eccome. Alzi la mano, si sarà detto Alfano, chi non ha contribuito alla bisogna. E tuttavia, nella sequenza del sabba dantesco (ci scusi il sommo poeta) scatenatosi, Alfano ha perlomeno la singolarità dell’intero film splatter: è stato il primo dei numeri uno susseguitisi. Numero uno è il presunto colpevole, numero uno è la sua mamma (a sua insaputa?), numero uno è il padre, sepolto e poi riesumato, numero uno è il procuratore e numero uno è il giornalista collettivo che, saltabeccando da una strage all’altra, ha gestito per ore e ore uno speciale palinsesto gocciolante morbosità e mistero. E che dire delle riflessioni, degli approfondimenti, dell’accavallarsi di voci e di interiezioni su cui prevalevano i numeri uno, ancora loro, esperti e addetti alla lettura dell’inspiegabile, dell’inconscio, dei segreti dell’uomo.

Una parola magica ha svettato sui diluviali sproloqui: femminicidio. Ma non per la prevalenza delle morti ammazzate di sesso femminile, che pure importa, ma soprattutto per la motivazione psicofilosofica onnicomprensiva, il cui vero rischio è la sua inevitabile ideologizzazione. Femminicidio non dunque e soltanto una parola, ma una chiave interpretativa di accesso ai misteri, ai segreti inconfessabili, alle pulsioni criminali. C’entra anche il femminicidio, ma solo di traverso, come passaggio, strettoia.

Ma i due delitti, soprattutto quello di Motta Visconti, segue la strada più diretta, più esplicita, più larga che i veri reporter della cronaca nera sanno a memoria. Il noir è un genere a sé stante - purtroppo desueto e guastato dalla tv spettacolo - che presuppone un approccio diretto, semplice, da cronista, appunto. La sua narrazione si svolge naturale nel suo sgomento iniziale per poi espandersi nei moventi, nelle supposizioni, nei dettagli, negli indizi. Poi, molto poi, si può ricorrere alla parola chiave, ma il vero reporter non sa cosa farsene perché ha davanti a sé i fatti nudi e crudi coi suoi protagonisti, i suoi sfondi (dal Mulino Bianco alla palestra, dall’amore coniugale consumato prima dello sgozzamento stragistico, alla violenza su una tredicenne lasciata morire in una brughiera fredda e cupa, alle prove di massa del Dna, al tunisino fermato e poi prosciolto, ecc.). Ma il giornalista della cronaca nera ha un compito da svolgere nel quale sa far prevalere la chiarezza del racconto, l’esposizione della fattualità e, soprattutto, la considerazione finale per il lettore che ha tenuto per mano.

Qual è l’estrema sintesi dell’una e dell’altra vicenda? Più che numeri uno, gli assassini sono uno di numero. Uno e/o due, più precisamente. Perché non è vero che gli assassini sono fra noi, né tantomeno che sono in noi. Non è vero che siamo immersi in un universo di mostri, di pazzi (come quello di Cinisello imitante Kabobo) di deviati, di psicopatici nati da relazioni illegittime. Le cose non stanno così, come scriverebbe l’autentico reporter d’antan. Sono personaggi e fatti rarissimi, speciali, estranei alla vita comune d’ogni giorno. E proprio e solo per questo che sgomentano e affliggono lettori e telespettatori. Ma piacciono ai numeri uno della tivù spettacolo. Se fossero davvero fra noi e in noi, i mostri, non ci faremmo caso, anzi farebbero la fine del “Marziano a Roma” di Ennio Flaiano: “A marzià, facce ride!”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:04