Il falso mito delle “leadership”

“Duce! Duce!”. Vi ricordate dove ci ha condotto quella nostra smisurata voglia di affidarci a “l’uomo forte”, o “della Provvidenza”? Allora finimmo diritti in una guerra mondiale (decisione presa a seguito di acclamazione popolare da parte delle folle riunite sotto il balcone di Palazzo Venezia) e, dopo l’armistizio del 1943, ci trovammo intrappolati in un conflitto civile, militare, politico e ideologico i cui echi non si sono mai del tutto spenti. Quale fuoco (per il ritorno di fiamma della voglia di leader) germina, oggi, sotto le ceneri del disastro socio-economico, etico e politico di questo sciagurato ultimo ventennio, disperso in inutili faide pro o contro Silvio Berlusconi, nel quale si sono consumate, senza costrutto, le speranze di rinascita dell’Italia, dopo la trionfale, vampiresca marcia di abbandono della lira? Perché, dopo il 2001, si è lasciato, da un lato, tagliare con la mannaia il 50% del potere di acquisto delle famiglie italiane (a seguito e “a causa” di un “change-over” non governato da nessuno, e lasciato all’anarchia del mercato immobiliare e degli aumenti indiscriminati di quasi tutte le categorie merceologiche), mentre, dall’altro, in questi tre lustri, nessuno ha messo a profitto l’enorme risparmio di 600 miliardi di euro sul pagamento degli interessi del nostro debito pubblico?

Eppure, se non erro, c’è stato, dal 2001 in poi, la massima concentrazione del potere democratico, esercitabile attraverso una leadership forte e incontrastata (Berlusconi, di fatto, era molto ricco e aveva il monopolio sui media italiani). Per di più, grazie al meccanismo elettorale del “Porcellum”, il Cavaliere ha governato, per ben due volte, con “maggioranze bulgare, facendo eleggere alla Camera e al Senato persone devote e fidate, da lui scelte. Eppure, come si può ben notare a consuntivo, il risultato è stato pressoché disastroso: nessuna delle riforme incisive della società, dell’economia e del sistema istituzional-burocratico ha avuto veramente luogo. La società italiana è rimasta, in pratica, cristallizzata e ossificata sulle mura cadenti di un assistenzialismo da welfare collettivista, in cui sono sempre meno coloro in grado di produrre nuova ricchezza. Il sistema corruttivo generalizzato, che consuma dalle fondamenta le sicurezze di questa Nazione - come stiamo nuovamente vedendo, a seguito delle inchieste sull’Expo e sul Mose - si basa sulla rapina irresponsabile di immense risorse finanziarie statali, destinate agli appalti di opere pubbliche.

L’intero circuito è inquinato e governato da interessi occulti e dalla presenza ingombrante delle mafie nazionali, al cui banchetto partecipa il più vasto conglomerato d’interessi economici, politici e burocratici (questi ultimi rei del mancato controllo) del Paese. Lo Stato italiano è, ormai, un’entità pubblicamente odiata dai suoi stessi cittadini, a causa di una tassazione feroce e indiscriminata. Inutilmente gli spiriti liberi e indipendenti di questo Paese denunciano il crescente, drammatico assorbimento di risorse (che da luogo al progressivo aumento dello stock del debito pubblico), per coprire i costi sempre più gravosi e inaccettabili della macchina burocratica statale, luogo di tutte le corruttele e spazio privilegiato per la collocazione e il mantenimento di caste politico-burocratiche, locali e nazionali, di seconda e terza fila. Ed ecco, allora, che perfino il “Salvator” Monti, con la sua leadership nuova di zecca, è restato intrappolato in quello stesso meccanismo perverso di irriformabilità sostanziale del sistema pubblico e istituzionale italiano. E tutto ciò, malgrado che Monti stesso fosse sostenuto da un’impressionante “bolla” mediatica e dai massimi poteri finanziari internazionali.

Immemore della nota favola della rana e del bue, il “Professore”, grazie al sostegno palese delle gerarchie cattoliche, è arrivato a sfidare - con enorme presunzione, va detto - le leadership berlusconiana e bersaniana, per restare poi, stordito e confuso, sotto i colpi inferti dall’elettorato italiano, prima nel 2013 e poi nel 2014, che ha decretato, in quest’ultima occasione, la cancellazione di Scelta Civica, la sua creatura politica, dal panorama politico italiano.

Ma, nel frattempo, sorte ancora peggiore è toccata alla leadership di Michele Boldrin (accusato - un po’ ingenerosamente, occorre dire - da una parte dei suoi di “conduzione stalinista” delle spoglie elettorali di Fare per Fermare il Declino), che guidava gli ultimi talebani sopravvissuti dell’ideologia liberal-democratica. Qui le ragioni sono evidenti. Da un lato, l’Alde italiano - in pratica, un mini “patchwork”, messo su all’ultimo minuto, come si farebbe con un’impalcatura provvisoria - ha ricevuto una bocciatura senza se e senza ma (solo lo 0,7% alle ultime europee) dall’elettorato italiano, per il suo scarso appeal politico. Dall’altro, da molto tempo ormai, l’offerta di liberalismo è fortemente inflazionata (troppe sigle, movimenti e minipartitini che si richiamano a valori liberali), rispetto a una domanda praticamente inesistente, da parte dell’elettorato italiano. Ma mentre Berlusconi si è rivelato, oltre che un grande leader comunicativo e carismatico, un padre provvidente (nel senso che, in passato, ha generosamente pagato i conti prima di Forza Italia, poi del Pdl, poi nuovamente di FI), dall’altra parte Boldrin e i suoi hanno dovuto fare i conti con le casse desolatamente vuote (anche a causa del flop elettorale di “Fare” nel 2013) e con un “fund-rising” fallimentare.

Su Fare, tra l’altro, andrebbe aperto un discorso delicato, sul perché Giannino sia stato bruciato sul filo di lana, a pochissimi giorni dall’apertura delle urne. Buon senso avrebbe voluto che, a risultato elettorale acquisito, “qualcuno” avesse documentato a Giannino, in via personale e riservatissima, la mendacità di alcune sue attestazioni pubbliche sui titoli di studio posseduti, ottenendone le dimissioni “soft” dalla segreteria del partito, magari, che so, per sopraggiunti, gravi motivi di salute. Ma torniamo alla creazione dei leader. Prendiamo il caso della Lega. Ebbene, al suo interno è avvenuto qualcosa di molto interessante. Essendo un partito fortemente legato all’identità territoriale, attivato fin dall’inizio con il metodo assiduo del porta-a-porta, “qualcuno” (Salvini) è andato spiegando le ragioni del declino (la corruzione interna, l’allineamento eccessivo sulle posizioni di Berlusconi, ecc.), trovando nuova forza nello scontento reale delle persone, per quanto riguarda “Roma ladrona”, con la sua tassazione che fa morire partite iva e piccole imprese del Nord, per finire al tema cruciale della moneta unica e dell’Europa malata di burocrazia, governata dai banchieri e dalla finanza internazionale, vista come il killer anonimo, che uccide ogni speranza di ripresa dell’economia italiana.

Idem, in fondo, è accaduto per la leadership di Grillo. Morale: il voto fluido rappresenta un magma incandescente che, al salire progressivamente della pressione e della temperatura interna (processo invisibile in superficie), arriva fin sull’orlo del cratere del vulcano della rivolta sociale, per poi erompere nel panorama politico, cavalcato dai leader che, in quel momento, ne sapranno catturare e strumentalizzare le energie distruttive, disgregative e, per ciò stesso, innovative e rivoluzionarie.

Personalmente, non temo nessun 1917 (Rivoluzione d’Ottobre): l’Italia non è rappresentata da enormi masse di contadini poveri, oppressi e diseredati. Al contrario: siamo destinati a rimanere, ancora per i prossimi 50 anni, una società dal benessere discreto (fanno fede gli enormi risparmi delle famiglie, depositati nei conti correnti bancari). Quindi, tempo al tempo: tra non molto, sapremo chi guiderà, per forza delle leggi di natura, la “maggioranza silenziosa” moderata, che oggi non vota o fa fatica a riconoscersi nell’attuale centrodestra. Praticamente, per il futuro, non ci aspetta un nuovo Duce, ma solo una sorta di “Renzi 2”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:13