Caro Renzi, ancora   servono i prefetti?

Parecchi anni fa, sulle colonne di questo giornale, esaminavo quale fosse il potere invisibile dei Prefetti e perché, malgrado le più feroci critiche nei confronti di un tale istituto “napoleonico”, quella figura di servitore dello Stato avesse resistito fino a oggi, a dispetto della tanto decantata autonomia degli enti locali e dei progetti federalisti più o meno spinti.

Anche allora ebbi a notare che i prefetti erano, diciamo così, dei “finti dimenticati”, mai troppo difesi pubblicamente, ma molto ascoltati e ricercati dietro le quinte perché senza di loro il Governo e tutta la classe politica, nonché qualunque maggioranza “pro-tempore”, sarebbero stati privi del “grande orecchio” attento, sensibile ed informato sulle cose, più o meno segrete, della Provincia. Il colloquio, poi, con il prefetto, da parte di amministratori e responsabili locali, è ancora lo strumento più sicuro per far arrivare al centro, attraverso le segrete stanze del potere, i suggerimenti, le proposte di mediazione, le richieste d’intervento che, per mille diversi motivi, non possono o non è opportuno che transitino attraverso i canali ufficiali usuali.

Il potere dei prefetti, quindi, è “felpato”, sottile e invisibile e avvolge, come la tela del ragno, tutte le istituzioni, contribuendo alla loro unità e ricostruendo sinergie di rapporti, laddove, per colpa degli uomini o delle circostanze, una o più correnti di comunicazione si siano interrotte, in base a quei noti “black-out” istituzionali di cui abbonda il nostro ordinamento. Nel XXI secolo, tuttavia, i prefetti mostrano un grado di obsolescenza funzionale legata, sostanzialmente, ai seguenti due aspetti fondamentali. Il primo viene da molto lontano, dall’Unità d’Italia, e riguarda l’identificazione della relativa circoscrizione territoriale delle Prefetture a quella degli enti Provincia. Tant’è vero che oggi molti dei “Palazzi del Governo”, di mussoliniana memoria, sono passati - in quanto proprietà immobiliari e contenitori funzionali - direttamente sotto la giurisdizione delle Province di appartenenza. Ovunque, dalla fine degli anni Settanta in poi (quando furono create le Regioni, sulla base di logiche lontanissime dalla razionalizzazione dell’attività politico-amministrativa sul territorio nazionale) ha prevalso un malinteso senso dell’autonomia che, localmente, ha avuto come cavallo di battaglia la sottrazione di qualsiasi controllo del prefetto sugli atti dei Comuni. Il risultato è stato quello a tutti noto dello scardinamento dei conti pubblici, a seguito del passaggio da uno Stato “leggero” a una proliferazione abnorme di centri di spesa e decisionali, non assoggettati a un qualsivoglia, ragionevole strumento di coordinamento da parte dell’Autorità centrale.

Analogo senso hanno avuto, negli ultimi 40 anni, gli svuotamenti di competenze dai ministeri centrali verso le Regioni, “senza” alcun dimagrimento degli stessi apparati centralizzati, per quanto riguarda sia il personale, sia il drastico taglio di aberranti duplicazioni funzionali, che ancora oggi continuano a persistere.

Il secondo aspetto dell’obsolescenza dell’istituto prefettizio deriva direttamente dal suo profilo funzionale. Infatti, nel passato, in presenza di uno Stato centralizzato, la figura prefettizia era quella del funzionario “generalista”, in grado cioè di porsi a 360 gradi sulla competenza amministrativa ordinaria. Dottrinalmente, questa caratteristica viene descritta come “elemento di chiusura dell’Ordinamento”: grazie a una legge degli anni Cinquanta, ancora vigente, il prefetto può, in condizioni di emergenza, svolgere la supplenza a tutto campo - attraverso l’adozione delle ordinanze di contingibilità e urgenza - rispetto a tutti quei poteri pubblici che in qualche modo vengano temporaneamente a mancare. E qui sorge il dilemma: in mancanza di situazioni eccezionali, che ci fa un potere così ampio “inespresso”, dovendosi limitare a gestire mere attività ordinarie, alle quali “dovrebbero” provvedere benissimo - qualora funzionasse con un minimo di decenza, il principio di sussidiarietà! - i poteri locali e gli organismi decentrati dello Stato?

Come si vede, quindi, la disputa non è e non potrà mai essere sul “numero” delle Prefetture (e quindi dei prefetti, oggi quasi totalmente arroccati, per la difesa del proprio status, sugli aspetti del coordinamento dell’Ordine e della sicurezza pubblici), bensì sul loro “ruolo”, in un Paese come questo, devastato dalla corruzione, dal clientelismo e dalla gravissima inefficienza amministrativa. Politica e cittadini, prima di provare ridisegnare la figura del prefetto, debbono innanzitutto chiedersi “quale Stato desideriamo ricostruire?”. Dopo il disastro della riforma del Titolo V, in mancanza di una nuova assemblea costituente, continuano a incombere progetti e ipotesi di riforma costituzionale improvvisati, incoerenti, lacunosi e fortemente appesantiti da bachi logici e giuridici, come stiamo vedendo attraverso le recenti, disastrose trattative sulla prossima riforma costituzionale, legate a innominabili interessi di bottega.

Tutto si orienta, così, verso la perpetuazione di uno Stato-centauro, per metà borbonico e per l’altra parte medioevale, poco rispettoso della “Civis”, resa schiava dall’inefficienza, dalla pletoricità e dall’inutilità sociale di molta della sua burocrazia. La domanda alla quale rispondere, quindi, è la seguente: “Servono ancora i prefetti” (e, in particolare, serve un funzionario generalista) all’Italia? A mio giudizio, la risposta è: “Sì”. Purché, con i poteri e il ruolo completamente rinnovati. Penso alla nuova figura di prefetto come a una sorta di Giano Bifronte. Da un lato, coordina e controlla la spesa di tutti gli appalti pubblici, monitorando accuratamente le responsabilità amministrative e tecniche degli uffici locali coinvolti, in modo da svolgere una sorta di commissariamento permanente delle procedure relative, per almeno due decenni.

Dall’altro, deve essere chiamato a svolgere una particolare funzione “magistratuale” extragiurisdizionale, facendo rispettare i costi standard riguardanti la fornitura, la prestazione dei servizi e l’organizzazione interna delle attività amministrative pubbliche. Questo vuol dire, ad esempio, che se un certo Comune di classe demografica determinata vuole fare funzionare in modo ottimale i suoi servizi anagrafici, deve rispettare alcuni fondamentali parametri prefissati a livello centrale (quali: n. di dipendenti rapportato alla popolazione residente; grado d’informatizzazione e condizioni di accesso telematico alle banche dati relative; etc.) e l’Autorità di bacino - per utenza, conformazione ed estensione del territorio, ecc. - sarà proprio il nuovo prefetto, che avrà poteri sanzionatori disciplinari diretti, sui funzionari e dirigenti pubblici, responsabili di eventuali violazioni amministrative, in merito all’aumento ingiustificato dei costi delle prestazioni e al mancato dimensionamento ottimale dell’organizzazione amministrativa. Caro Presidente Renzi, vogliamo ragionarci un po’ su?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:21