L’avvocato Stefano Crisci, esperto di diritto tributario e docente universitario, ci illustra le problematiche nel labirinto del sistema legislativo italiano e ci indica la via per uscirne.
Nella necessaria riforma della giustizia che da decenni si va annunciando ci sono settori importanti come quello dei tribunali amministrativi, nei quali spesso si perdono le pratiche e le cause durano tempi biblici, come il Consiglio di Stato successivo. Quali sono secondo lei le innovazioni da portare al settore?
È un argomento estremamente complesso, che non può essere liquidato in poche battute. Tuttavia, cercherò di essere sintetico e arrivare al cuore del problema. Il male endemico che affligge la nostra giustizia non sono i magistrati, né nello specifico i gradi di giudizio, ma in una battuta quello che non viene fatto, seriamente, per farla funzionare. La nostra cultura giuridica, millenaria, ci induce ad un esasperato garantismo, ad una stratificazione storica di ogni istituto. Detto in termini più accessibili, abbiamo una spiccata capacità critica che non ci consente di alleggerire troppo i processi, rinunciando, quanto basta, alla massimizzazione delle tutele. Al tempo stesso, però, siamo il Paese che legifera di più e che destina il minor numero di risorse al governo della giustizia. Viene da sé la considerazione che avendo rinunciato alla deflazione, a tutto vantaggio della garanzia della verità processuale, abbiamo processi lunghi (con tre gradi di giudizio), carenza di personale sia togato che non. Le moderne democrazie (vedi il sistema americano), sono perfettamente coscienti della necessità di una giustizia veloce ed efficiente, cui destinare il maggior numero di risorse economiche, ma accettano il rischio, insito nella efficienza, di immolare sull’altare della patria principi di ordine etico, che talvolta offrono il fianco a defatiganti excursus processuali che finiscono per fiaccare la preda, ossia allontanano i tempi per il raggiungimento del bene della vita anelato. Venendo, poi, alla specificità delle accuse rivolte alla giustizia amministrativa, mi permetto di dissentire dal coro politico. Si paventa una soluzione caratterizzata da interventi demolitori che non hanno nulla di strutturale, come l’abolizione della sospensiva (rectius tutela cautelare nel processo amministrativo degli appalti) e della introduzione del cosiddetto “processo veloce”. Ma siamo sicuri che l’adozione di una legge che definisca come veloce il processo, basti a velocizzarlo? Non dobbiamo dimenticare che ad un processo amministrativo, rectius giudice, demandiamo il compito di essere garante della verifica in concreto dell’applicazione di principi quali la trasparenza, la legalità, la proporzionalità ed il buon andamento dell’azione amministrativa nelle gare di appalto. Sarebbe ipotizzabile la soluzione, pure paventata, che chi abbia illegittimamente ottenuto l’aggiudicazione di una gara di appalto acquisisca una sorta di intangibilità della posizione di vantaggio? Dove sarebbe la soluzione di diritto? In tal senso occorrerebbe ipotizzare un sistema di gestione della macchina amministrativa più fluido. Sdoganiamo una forma di tutele a monte e non a valle. Ovvero, non chiediamo al giudice di dichiarare legittima una gara di appalto, ma pretendiamolo dalla stazione appaltante, con il sistema di chi sbaglia paga (simile alla regola comunitaria del “chi inquina paga”). Tradotto nel linguaggio giuridico: adottiamo un sistema di autocontrollo interno o, meglio, un’autotutela forte e doverosa. Il tutto accompagnato da una efficiente deregulation: pochi formalismi, meno adempimenti burocratici ed un deciso revirement verso il sistema comunitario dell’effetto utile. La macchina kafkiana dell’amministrazione, oggi, si muove come un pachiderma, appesantita da una normazione fluviale che porta, insito, il pericolo dell’errore. All’errore segue, inevitabilmente, un’azione processuale: così al giudice, l’operatore economico deve necessariamente rivolgersi, per vedersi riconosciuto il tanto anelato bene della vita, illegittimamente o legittimamente negato. In conclusione: una amministrazione snella ed efficiente produrrà meno contenziosi, il ricorso al giudice tornerà ad essere una estrema ratio a tutto vantaggio di una giustizia più veloce e un risparmio di spesa giustificato. In fondo lo chiede anche il nostro Premier, quando afferma di voler fare “una lotta violenta alla burocrazia”. E allora, perché non cominciare da lì!
Le difficoltà economiche delle nostre imprese stanno spingendo i nostri imprenditori, anche quelli medio piccoli, a guardare all’estero. Inesperienza e mancanza di struttura li espongono ai “pericoli della contrattualistica internazionale”, quali secondo lei i passi giusti per partire e quali gli strumenti necessari per consolidare la certezza dei rapporti giuridici?
Il mercato interno è un mercato appesantito dalla burocrazia e da una fiscalità fortemente afflittiva. Anche in questa mia risposta, rischio di affermare l’ovvio. Ma perché non dare credito all’ovvietà della soluzione. Le faccio un esempio esemplificativo: ha mai chiesto ad un piccolo commerciante cosa debba affrontare, in termini burocratici, per aprire un piccolo esercizio? Partiamo dalla Dia, Scia e pigmenti vari. Molte volte il controllo repressivo che spetta alla pubblica amministrazione è percepito dal commerciante come preclusivo e soffocante, perché la moltitudine di adempimenti burocratici non è alla sua portata. Il ginepraio di leggi in cui inciampa non gli consente di svolgere la sua attività con le necessarie certezze giuridiche. Ancora una volta quel commerciante sarà costretto a rivolgersi al giudice per capire se l’azione amministrativa sia legittima o meno. Tutta questa farraginosità produce sfiducia, ma nello stesso tempo si osserva un fenomeno anomalo. La sana imprenditoria italiana è costretta a migrare per non rinunciare alla legalità e soprattutto per salvare il proprio profitto, mentre si sta sviluppando un’imprenditoria sommersa di matrice straniera (il fenomeno che possiamo chiamare “cinese”). Stiamo perdendo una fetta di produzione sana e di qualità, a tutto vantaggio di una produzione spesso illegale ed a basso costo. Altro problema è l’approccio con il mercato internazionale. Quello italiano è un prodotto di eccellenza, che non ha alcuna difficoltà ad affermarsi nel mercato internazionale dove vigono regole più flessibili ma efficienti. Basti pensare ai principi fondamentali della contrattualistica: la chiarezza del regolamento contrattuale, la semplicità del linguaggio, l’organicità dello schema contrattuale, la completezza degli accordi su ogni possibile aspetto di futura frizione, armonia e giusto equilibrio tra le clausole che tutelano le parti contraenti. Insomma, nulla che non possa essere affrontato con il supporto tecnico di un buon professionista. Una realtà che ho vissuto in prima persona nella mia esperienza presso lo Studio Carnelutti quando abbiamo negoziato il contratto per la realizzazione del porto di Doha negli Emirati Arabi o combattuto in un arbitrato relativo al porto di Jen-Jen in Algeria ed altri esempi di contrattualistica internazionale che risponde a modelli di base condivisi che vanno plasmati ad arte dai professionisti, a seconda delle esigenze.
Nella sua esperienza curriculare noto che Lei è anche un esperto di diritto tributario. Come mai questa singolare attività?
Questa è una esperienza che mi porto appresso da oltre vent’anni e che ha segnato i miei anni di professione con le notti insonni. Sono stato nominato giudice della Commissione Tributaria di Roma nel 1990 e da allora ho studiato fascicoli, fatto udienze e scritto sentenze. Un’attività interessantissima che ti fa vedere la prospettiva dell’organo giudicante a tutto tondo, oltre ad avermi aperto un mondo, quello tributario, che altrimenti mi sarebbe stato sconosciuto. L’attività è stata, tuttavia, compendiosa e poco remunerativa, quasi un servizio di Stato. Ad un certo punto ho scoperto che il decreto anticorruzione del 2012, con una norma a mio avviso iniqua ed anticostituzionale ma con efficacia paralizzante, vietava a tutti i giudici, compreso quello tributario, di accettare incarichi in collegi arbitrali o di arbitro unico; allora ho preso la sofferta decisione di dimettermi, aprendo un dipartimento all’interno del mio studio di diritto tributario. Ciò mi consentirà di mettere a frutto la mia esperienza pluridecennale nel campo, essendo, tra l’altro, nella condizione di sicuro vantaggio di ragionare a parti invertite e cioè con una cura maggiore a quelle che sono le priorità logico-giuridiche del giudice per poter emettere la propria decisione e, quindi, sicuro di fare la migliore istruttoria possibile in materia. Al contempo, potrò continuare a dedicarmi ad una delle mie passioni: l’Alternative Dispute Resolution, gli arbitrati. Il futuro, come dice il mio amico Luigi Mazzella, vicepresidente della Corte Costituzionale, nel suo libro presentato pochi giorni fa “Eurocrash – 50 ipotesi di incerto futuro”.
Il diritto amministrativo, civile, i contenziosi sono materie non facili da affrontare perché questo vostro particolare indirizzo?
Il diritto amministrativo è un diritto di nicchia. Non a caso la magistratura amministrativa è una magistratura di rango superiore, senza nulla togliere alla magistratura ordinaria. Quello amministrativo è un diritto giovane, esposto ad una legislazione in continua evoluzione. Lo testimonia l’entrata in vigore, solo di recente, del suo primo codice sul processo. Le leggi sono sempre nate già obsolete rispetto alla genialità degli operatori di questa branca, la sua evoluzione è strettamente connessa all’evolversi dei rapporti sociali e politici del Paese. Mi spiego: se facciamo riferimento alla legge sul procedimento, il legislatore si è limitato a recepire principi già legittimati da orientamenti consolidati della giurisprudenza. O qualcosa di più recente, come l’azione di condanna pubblicistica, prevista solo in alcune materie, ma estesa a tutto il contenzioso avente ad oggetto interessi pretensivi, da una storica pronuncia del Consiglio di Stato cui è seguito il secondo correttivo. Il diritto civile è, di converso, un diritto millenario, granitico che nasce con l’uomo e le cui regole sono quasi intangibili e frutto di un diritto naturale. Così il suo è un processo tra uomini, quello amministrativo è il processo tra cittadino ed autorità. Tuttavia, di recente, anche la magistratura ordinaria ha aperto le porte ad una “normazione pretoria”: il giudice si è appropriato di un potere creativo, che va oltre la regola, con uno spirito di adeguamento costante all’evoluzione del sentire sociale (ad esempio: le nuove frontiere del danno tanatologico o della risarcibilità del danno da nascita indesiderata). Così la diversità dei contenziosi nasce dalla peculiarità degli interessi in gioco: nel processo amministrativo la composizione di interessi economici (vedi in materia degli appalti di lavori), la legalità dell’agere pubblico, il riconoscimento di un bene della vita negato alla disponibilità del legittimo destinatario e, non ultima, la tutela di interessi costituzionalmente garantiti (basti pensare alla materia delle espropriazioni). Insomma, un processo in cui gli interessi coinvolti sono di difficile composizione. Quello civile è un processo in cui il giudice è chiamato a dirimere una controversia in cui gli interessi coinvolti sono di natura particolare, un processo individualizzante, il cui responso è limitato ai soli due contendenti. Diversamente, il giudice amministrativo si scontra con poteri forti, lo Stato ed i grossi operatori economici, cosa che non accade nel processo civile, con le dovute eccezioni (vedi le pronunce sugli interessi anatocistici praticati dalle banche). La consapevolezza del sovraordinato interesse collettivo a che l’azione amministrativa sia condotta secondo i criteri stabiliti dalla Costituzione, mi ha sempre affascinato. È chiaro che, se ci fosse un sistema di Amministrazione più efficiente, preparato ed efficace, non vi sarebbe bisogno, come ho detto prima, di ricorrere al giudice amministrativo che, spesso, è stato definito quale unica “sentinella del diritto e dell’economia”. Occorre quindi agire rapidamente in questo senso, affondare l’intervento fino alle radici della pubblica amministrazione per estirpare le piante “malate” o non più capaci di generare un rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini che sia il frutto di una base di regole condivise ed accettate da tutti i cittadini. Affannarsi ora, come si sta facendo in ogni provvedimento di legge recente, ad eliminare con sanzioni più o meno limitative dei diritti di ciascuno la possibilità di ricorrere al giudice, senza fare questo, significa a mio avviso imbarbarire ancora di più un sistema sociale.
Lei è noto anche come professore universitario, il percorso scolastico formativo odierno lo ritiene adeguato in tempi nei quali anche la globalizzazione è dilagata anche nell’applicazione del diritto?
A seguito della mia esperienza americana, dove ho conseguito un master in diritto internazionale commerciale presso la New York University, ho avuto modo di sperimentare l’inadeguatezza del sistema universitario italiano, a fronte di quello statunitense. Sicuramente in Italia abbiamo un corredo umano di grande spessore, docenti di altissimo livello, ma nel complesso una struttura che non riesce ad intercettare potenzialità di formazione a causa del fatto che non appare in grado, quanto ad organizzazione e offerta, di competere in questo mondo globalizzato. Sono molto orgoglioso di insegnare “Economic Constitution” alla Facoltà di Economia dell’Università “La Sapienza” di Roma e, anche con l’aiuto degli studenti Erasmus provenienti dalle più svariate università del mondo (in qualche modo a disagio, non solo per la mancanza di organizzazione dell’università italiana ma anche per il metodo utilizzato per gli esami), ho apportato alcune innovazioni strutturali al corso, ispirandomi all’esperienza anche internazionale, quali, ad esempio, testare gli studenti con delle presentazioni su argomenti trattati a lezione, attribuendo una valutazione al loro lavoro che contribuirà alla formazione del giudizio finale; fornendo loro un elenco di possibili argomenti, di domande, ecc. Naturalmente lo sforzo di ciascun docente, se non accompagnato da una organizzazione complessiva che sia garantita dalle strutture e da una ingegnerizzazione globale degli uffici, tesa a fornire un’offerta formativa adeguata ai tempi, rischia di far rimanere questi interventi ad un livello di monadi isolate. Siamo ancora lontani da un intervento sistematico del legislatore, il quale a mio avviso dovrebbe partire dal basso, cioè dagli studenti. In realtà, invece, le uniche ipotesi di intervento programmate riguardano le regole di reclutamento dei docenti, i criteri di valutazione del merito, ecc. Vorrei chiudere dicendo che il sistema universitario italiano premia il più determinato tra gli studenti, quello cioè che oltre a primeggiare sul piano squisitamente didattico, presenta caratteristiche spiccate di autorganizzazione; nei sistemi universitari stranieri l’università è al servizio dello studente, con un forte potere di orientamento che però è strettamente connesso alle singole attitudini.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:19