Diritti civili violati: il caso Hurricane

L’ex pugile americano Rubin Carter, detto Hurricane, accusato ingiustamente di triplice omicidio nel 1966, è stato chiuso per 19 anni in carcere prima di ottenere giustizia. Fu un caso di eclatante razzismo e il fatto di essere nero non lo ha di certo aiutato. Per lui si mobilitarono per anni molte voci, politici, associazioni per i diritti civili, campioni dello sport e stelle del cinema e della musica.

Si ricorda la celebre canzone di Bob Dylan del 1976 “Hurricane”, brano che narra il dolore e la lotta di Rubin Carter per quell’accusa ingiusta che gli fu imputata e per cui troncò la sua carriera di pugile. Ancora nel film “Hurricane - il grido dell’innocenza” (Usa - 1999) in cui il personaggio dell’ex campione venne interpretato da Denzel Washington.

A Rubin Carter, pugile e combattente per i diritti civili, è stato negato uno dei diritti fondamentali: il diritto alla libertà e alla difesa! Il razzismo è una vecchia storia, è antichissima la tendenza a discriminare i “diversi” (per colore della pelle, cultura, classe sociale inferiore). Fin dall’antichità, infatti, esisteva l’abitudine di molti popoli o gruppi sociali a prevalere su altri, considerati “diversi”, con atti di esclusione e di discriminazione. A dare una sembianza di razionalità ad un vero e proprio pregiudizio è stata la prima teoria “scientifica”, in età contemporanea, della differenziazione biologica dell’umanità in razze. Fu la classificazione in base al colore della pelle operata da C. Linneo nel 1735. Negli Stati Uniti, nonostante l’abolizione della schiavitù (1865), i neri continuarono a essere discriminati.

Ed è proprio qui che voglio tornare sulla vicenda di Hurricane, non siamo forse tutti uguali come si cita nell’Articolo 1 della dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948? “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. E ancora, nel punto 1 dell’articolo 2 della suddetta Dichiarazione: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. Il caso del pugile Hurricane avviene nel pieno degli anni Sessanta, con la nazione americana ancora sotto l’effetto da sindrome da accerchiamento che culmina negli anni Cinquanta con il Maccartismo e con la rapida ascesa del potere dell’Fbi e in Russia con la fine dello stalinismo e del sistema Gulag (che eliminerà almeno 15 milioni di persone).

In questo quadro storico, la vicenda di Hurricane non poteva avere altro esito che quello di un processo sommario e successivamente supportato da un sistema giuridico colluso con le spinte autoritarie americane come contraltare alla aggressività russa. È bene sempre procedere ad una valutazione dei fatti giudiziari all’interno del momento storico politico ed economico di riferimento. Proprio per questo, il caso Hurricane non fu un errore giudiziario, ma un atto politico dettato dalla ricerca del “nemico” e del “diverso” su cui riversare la propria aggressività e contro cui far quadrato, mentre quasi sempre la società interna americana stava soffrendo violente contraddizioni sul piano economico e soprattutto sociale in tema di diritti civili che, da quell’epoca in poi, gli Usa avrebbero posto sempre più in sordina in nome della difesa antiterroristica americana contro il mondo in nome della libertà.

Va infine rilevato che la politica imperiale americana e quella russa sono caratterizzate da decenni da uno stato di emergenza permanente. Bisogna fare in fretta perché i nemici non attendono. Lo stato di urgenza fa perdere lucidità di giudizio ai cittadini e la democrazia ne viene compromessa gravemente. Anche nel continente europeo l’ossessione del “fare presto” è uno dei sintomi di una democrazia sociale ed economica che sta per morire in nome di una gestione del potere nelle mani di élites non elette da nessuno che stanno letteralmente triturando il gioco democratico che è fatto di trasparenza, di riflessione, di cultura, di etica della responsabilità e sicuramente non della fretta di fare e dei pregiudizi su cui si costruiscono alla fine i giudizi sommari.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:16