I tagli alla Rai si possono fare

I tagli in Rai si possono fare. Anzi, si devono effettuare in tempi brevi. Lo impongono i buchi di bilancio (250 milioni di rosso nel 2013, una sessantina nel 2014) e li sollecitano le osservazioni critiche della Corte dei Conti sulla gestione complessiva di viale Mazzini. La Rai costa troppo. Non solo Sanremo. Non ha alcun piano di contenimento dei costi ma va avanti come niente fosse, con una miriade di iniziative spezzatino, disperdendo professionalità in mille rivoli, quando non le tiene in stand-by.

Va osservato, però, che la strada giusta non è quella suggerita dal commissario alla “spending review”, Carlo Cottarelli, nel cui dossier sono prese di mira soltanto le sedi regionali. Le misure per riportare l’azienda di viale Mazzini sulla via del risanamento economico e alla sua missione di servizio pubblico debbono partire da un punto base e fondamentale: come Palazzo Chigi e il Parlamento concepiscono il futuro ruolo dell’azienda, il cui azionista di maggioranza (99%) è il ministero del Tesoro.

L’occasione per ripartire è il documento sottoposto all’esame della Commissione parlamentare di vigilanza, presieduta dal grillino Roberto Fico. La convenzione Rai-Stato scade nel 2016. Ci sono quindi una quindicina di mesi per mettere a punto una strategia di ampio respiro. Non servono operazioni rabberciate. La Rai deve cambiare. Cosa deve offrire viale Mazzini per meritarsi il rinnovo? Il piano triennale presentato dal direttore generale Luigi Gubitosi è una buona piattaforma? Stando ai risultati, no. Visto il flop di Sanremo dal punto di vista economico e delle polemiche suscitate dai cachet e dalla moltitudine di artisti invitati. Anche il flop della trasmissione affidata su Raidue al rientrante ex governatore del Lazio, Piero Marrazzo, dimostra che troppi programmi vengono realizzati per “accontentare qualcuno”.

Osservatori ed esperti si dicono convinti che la Rai debba essere “rivoluzionata”. Come? Certo non lasciando la divisione in tre Reti, ognuna separata dall’altra, senza attuare sinergie, tanto che un corrispondente all’estero spesso non effettuava servizi per tutti i telegiornali ma solo per quello di riferimento. In Rai esistono tante parrocchie, ognuna indipendente. Le strutture delle sedi regionali vanno ripensate? Sì, ma con una strategia precisa per non abbandonare l’informazione sul territorio che invece è preziosa. L’organizzazione risale ai tempi di Biagio Agnes, cioè al 1979, quando nacque la Terza Rete. Allora i criteri erano altri, politici, anzi tripartiti (una Rete sotto l’influenza cattolica, la seconda doveva gravitare in ambito socialista e la terza appannaggio dei comunisti).

Di anni ne sono passati tanti. Le tecnologie hanno fatto passi da gigante. Ora per “montare” un servizio televisivo di 50 secondi, un minuto e trenta (tanto durano quelli dei telegiornali) con i nuovi macchinari, ancora pochi in verità digitali, un operatore non impiega più di quindici minuti. E il resto delle sette ore della giornata? Le venti sedi regionali con 700 giornalisti e un migliaio di dirigenti, tecnici, amministrativi costano troppo per quel che rendono e sono indietro sul piano tecnologico (sorpassate dalle tivù locali, perché poco si è fatto dalla riforma di Piero Vigorelli di metà anni Novanta). La struttura di comando di viale Mazzini è complessa e pletorica. Troppi direttori e dirigenti: 232 manager con una retribuzione media che supera i 155mila euro e 322 giornalisti dirigenti con retribuzioni che vanno da 100 a 500mila euro in un caso. Il direttore generale è a quota 650mila euro, salvo benefit.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:19