
Venti marzo 1994, venti marzo 2002. Sono le date di due immense tragedie per il mondo giornalistico e accademico italiano. A Mogadiscio vennero uccisi, in un agguato, la giornalista Ilaria Alpi del Tg3 e l’operatore Miran Hrovatin. Stavano realizzando in Somalia delicate inchieste sugli aiuti comunitari per la cooperazione ed erano sulla pista del traffico di rifiuti tossici. A Bologna il professor Marco Biagi stava rientrando a casa da una lezione tenuta all’Università di Modena, quando venne ucciso da un commando delle Nuove Brigate Rosse.
Tre professionisti vittime del loro attaccamento al lavoro, della loro scrupolosità e del coraggio di portare avanti le idee in cui credevano. Altri giornalisti italiani hanno perso la vita nello svolgimento del loro mestiere. Maria Grazia Cutuli, uccisa nel 2001 con altri tre reporter sulla strada tra Jalalabad e Kabul; Antonio Russo di Radio Radicale, ucciso in circostanze misteriose nella città georgiana di Tiblisi mentre seguiva le operazioni della guerra cecena (il corpo fu ritrovato torturato); la romana Graziella De Palo e Italo Toni, scomparsi nel 1980 in Libano dopo aver scoperto un traffico d’armi e i cui corpi non sono stati mai ritrovati.
“Sono troppi vent’anni senza verità”, ha detto Luciana, la mamma di Ilaria Alpi alla quale la Rai dedica un documentario e servizi speciali per chiedere “giustizia e verità” e riaprire il caso che presenta evidenti punti oscuri. Quel giorno, quando giunse a Saxa Rubra la conferma del barbaro attentato omicida, il pensiero, commosso e profondamente turbato, andò a tutti gli inviati di guerra deceduti nell’adempimento del dovere d’informare i lettori e i telespettatori. La giornalista era arrivata in Rai con un vasto bagaglio di conoscenze del mondo arabo e islamico e animata da una forte spinta per la professione giornalistica d’inchiesta.
Quella stessa passione professionale che metteva anche Marco Biagi, di cui ci occuperemo con un altro articolo, nella ricerca delle soluzioni per risolvere le questioni sociali. Le loro vicende dicono che non bisogna dimenticare e che bisogna avere il coraggio di cercare la verità. In Africa dal 1992 in poi erano anni di tensioni, di contrasti e di conflitti tribali. Fare giornalismo vero in quelle situazioni non era facile, anzi rischioso, come prova la morte dell’operatore del Tg2 Marcello Palmisano nell’agguato (1995) alla giornalista Carmen Lasorella, insieme a seguire le operazioni della missione militare italiana in Somalia.
Accanto o dietro ai “signori della guerra” si muovevano trafficanti e faccendieri in un groviglio d’interessi per lo più illeciti. Non mancava una particolare “guerra di spionaggio”. Ilaria Alpi , cronista curiosa e attenta, pur conoscendo bene l’Africa, lavorava in queste difficili condizioni ambientali, politiche ed economiche. A distanza di vent’anni, dopo due processi (condannato all’ergastolo il somalo Hashi Omar Hassan, amico di uno dei signori della guerra e assolto in primo grado), una serie di libri e un film, il ricordo più toccante è in quella foto davanti ad un mezzo di rose rosse sul suo tavolo nella redazione esteri del Tg3, più che il funerale a Saxa Rubra davanti a migliaia di persone e alla presenza della mamma Giovanna e del padre Giorgio, che continuano a battersi per scoprire la verità.
Ilaria ha anche il volto di Giovanna Mezzogiorno, protagonista del film “Ilaria Alpi, il più crudele dei giorni” del regista Ferdinando Vicentini Orgnani che analizza il tempo tra il primo incontro Alpi- Hrovatin e la loro morte.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:15