Quantitative Easing e Unione Europea

Il Quantitative Easing è una delle operazioni di politica monetaria che una Banca centrale può adottare. Con il quantitative easing (il cui acronimo è QE e la cui traduzione italiana è “alleggerimento quantitativo”), le Banche centrali si pongono come acquirenti, generalmente, di titoli di Stato, di azioni od obbligazioni, con denaro creato “ex-novo”. Il nuovo denaro non viene necessariamente stampato, ma può anche essere creato per via elettronica, finendo, in qualsiasi ipotesi, sui bilanci della Banca centrale.

La Banca centrale, in altre parole, acquista, per una predeterminata quantità di denaro, titoli dalle banche, il cui acquisto, immediatamente, ha già un primo effetto positivo sul bilancio di esse. Gli obiettivi fondamentali del QE, tuttavia, sono due: l’immissione di liquidità nel proprio sistema finanziario, infatti, stimola la crescita economica; l’acquisto da parte della Banca centrale di titoli, d’altronde, incrementa la domanda e, di conseguenza, riduce i tassi d’interesse sui titoli.

L’intervento della Banca centrale, se diretto all’acquisto di titoli di un determinato Stato, poi, raggiunge l’obiettivo di ridurre il costo d’indebitamento di esso.

Vi sono, tuttavia, delle controindicazioni. Anzitutto, questa politica monetaria potrebbe portare degli effetti negativi in termini di inflazione. Ed è quello che paventano i sostenitori della politica monetaria tradizionale, definendo il quantitative easing, addirittura, una “droga” per i mercati. In secondo luogo, poiché il sistema delle banche costituisce un sottosistema, il fornire liquidità alle banche non comporta necessariamente uno stimolo al sistema economico (imprese, famiglie, ecc.); le banche, infatti, possono scegliere di non rimetterla in circolazione e di depositare la liquidità acquisita, presso la stessa Banca centrale, godendo, sì, di un tasso d’interesse basso, ma privo di ogni rischio.

La politica monetaria del quantitative easing è stata già attuata da tre grandi Banche centrali: la Federal Reserve, la Bank of Japan e la Bank of England. Tutte e tre hanno ottenuto buoni risultati.

La Federal Reserve, cioè la Banca centrale degli Stati Uniti, guidata da Ben Bernanke, ha disposto l’acquisto di bond sia del Tesoro sia di obbligazioni legate ai mutui, in quantità enormi, e più precisamente, circa 80 miliardi di dollari al mese (75 miliardi nel mese di dicembre 2013), negli ultimi cinque anni, assieme ad altre misure straordinarie. Ha così trascinato gli Usa fuori dalla crisi e sostenuto la crescita americana. A Bernanke succede, ora, Janet Yellen, una donna decisa a proseguire la scelta intrapresa della crescita e dell’occupazione (65 miliardi nel mese di gennaio 2014). Una donna, cioè, formata alla scuola di Tobin (premio Nobel per l’economia nel 1981), assertore del ruolo dell’intervento pubblico per uscire dalle crisi, e sposata ad Akerlof (altro premio Nobel per l’economia, nel 2001), che si è opposto alla teoria sull’auto-regolazione dei mercati.

La Bank of Japan, cioè la Banca centrale giapponese, ha seguito una simile politica monetaria. Il 4 aprile del 2013 la Banca centrale del Giappone ha annunciato di voler incrementare il suo programma di acquisto di titoli per 1.4 trilioni di dollari Usa, in due anni. La Banca del Giappone, operando in questo modo, prevede di avere un’inflazione, ma conta di mantenerla al 2%; così uscirà dalla recente deflazione e incentiverà l’export giapponese, spesso minacciato da quello cinese. Allo stesso tempo si avrà un aumento del 1,5% della spesa pubblica. Questa politica va sotto il nome di Abenomics, neologismo formato dal cognome del suo sostenitore, l’attuale Primo Ministro Shinzō Abe, e dal termine inglese economics. Già si hanno indiscutibili benefici nell’economia nipponica e il tasso di crescita annuale si attesta attorno al 3%. L’aspetto negativo di questa politica proviene dalla riduzione del potere d’acquisto dei giapponesi: l’aumento dell’inflazione, infatti, non è accompagnato da un eguale aumento dei salari. Tendenza che il governo dice di fermare con il raggiungimento di una maggiore competitività, basata su ricerca e sviluppo, e un forte ritorno sulla scena economica internazionale.

La Bank of England, cioè la Banca centrale d’Inghilterra, come previsto dagli analisti, ha confermato, il 6 marzo 2014, la propria politica monetaria del quantitative easing e ha anche confermato i tassi di interesse. Il saggio di riferimento, quindi, rimane fermo allo 0,50%, livello ormai fissato dal marzo del 2009. Gli esponenti della Banca centrale inglese, perciò, si sono trovati d’accordo sul fatto di mantenere inalterato il piano di riacquisto dei titoli di Stato, che è stato confermato a 375 miliardi di sterline. Lucida è l’analisi fatta sugli effetti delle politiche monetarie non convenzionali adottate nel Regno Unito: la Banca centrale è ferma nel limitare i suoi interventi alla creazione di liquidità, senza avventurarsi nell’assunzione diretta di crediti all’economia, cioè mette i soldi e si prende l’onere di controllare l’inflazione.

La crisi italiana del debito sovrano (così come quella degli altri Paesi in difficoltà) è avvenuta in un preciso contesto. Non esiste più la Banca d’Italia come Banca centrale, ma la Banca centrale europea, la Bce, con sede a Francoforte. Quest’ultima gestisce l’Euro, la moneta unica dell’Ue, e garantisce la stabilità dei prezzi nell’Unione per preservarne il potere d’acquisto. Inoltre contribuisce a definire e attuare la politica economica e monetaria dell’Ue. Premettiamo ancora che l’Euro non è affatto sotto attacco, anzi si avvantaggia dell’indebolimento del dollaro. La Bce, dunque, ha il compito di preparare e far approvare un mix d’interventi che tenga conto delle economie molto eterogenee dei Paesi che compongono l’Ue. Non esistono, per conseguenza, ricette standard che valgano per tutti i Paesi membri. Così i tassi d’interesse alti, teoricamente per difendere la valuta, avvantaggiano alcuni Paesi membri (come la Germania), ma danneggiano quelli che attualmente sono in difficoltà (come Italia, Spagna…). Essendo l’area valutaria comune a tutti, la misura più idonea, ormai da molti proposta, è il quantitative easing, cioè l’acquisto sul mercato di titoli del debito sovrano dei Paesi in difficoltà, con l’obiettivo di farne aumentare il valore rispetto ai titoli più forti (in particolare il Bund tedesco).

La politica monetaria europea del QE, pur con una durata predeterminata, dovrebbe però essere annunciata ufficialmente dall’Ue, e non praticata quasi di soppiatto dalla Bce, come avviene ora. Né l’acquisto dei titoli dovrebbe essere concesso solo a fronte di un’ulteriore austerity da parte dei Paesi in difficoltà perché apparirebbe come discrezionale e poco trasparente. Infine dovrebbe assicurare una quantità sufficiente di valuta (e non somigliare alla scarsa capitalizzazione dell’Efsf (European financial stability facility), tale da superare la crisi, assicurando la crescita e l’occupazione, soprattutto giovanile, in tutti i Paesi dell’Unione Europea.

È questo lo spirito di quell’Europa che si è iniziata a costruire nel lontano 1951 con la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, che si è affermata nel 1957 nei trattati di Roma con la Comunità Europea da parte dei sei Stati fondatori, e che si è ribadita nel 1993 con il passaggio dalla Comunità Europea all’Unione Europea.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:14