
La malagiustizia fa notizia solo quando si manifesta con arresti arbitrari e immotivati. Certo, le ingiuste detenzioni sono ancora tante, e in buona compagnia dell’inflazionata carcerazione cautelare (detta “preventiva”) danno la cifra del nostro sistema carcerario. Ma se solo si gettasse uno sguardo anche sulle vite rovinate dalla giustizia civile, dai risarcimenti milionari, ci si renderebbe conto di quanto la malagiustizia pesi sulla ripresa economica del paese.
Delle 80 mila aziende estintesi negli ultimi tre anni (il 5,6% del tessuto artigianale e commerciale) il 30% ha chiuso per l’assommarsi di carichi giudiziari e ostacoli burocratici. Così, oltre all’insopportabile carico fiscale, s’aggiungono la miriade di richieste risarcitorie: vanno dal fronte lavoristico (il dipendente occasionale che chiede l’assunzione a tempo indeterminato) a quello civile, e cioè le richieste risarcitorie su presunti danni a vicini, passanti, enti pubblici e soggetti più disparati. La “temerarietà della lite” non si limita alla sola infondatezza della domanda risarcitoria, ma s’estende soprattutto all’importo pecuniario. Così fino ad una ventina d’anni fa la contravvenzione comminata ad un artigiano si limitava al solo pagamento dell’ammenda (più o meno salata). Oggi invece capita che il titolare della partita Iva debba pagarsi anche l’avvocato e le relative spese di giustizia, questo perché un condominio più o meno vicino al laboratorio multato avrebbe ben pensato d’intentare un’azione risarcitoria nei riguardi dell’artigiano.
Sempre più spesso officine, carrozzerie, tappezzerie, laboratori di panetteria e dolciumi, oltre ad affrontare la crisi, pagare tasse e multe, dipendenti e fornitori, devono anche difendersi da condomini e associazioni che si costituiscono parte civile. Chiedono risarcimenti per milioni d’euro, adducendo la scusa che per decenni hanno coabitato col laboratorio artigianale e, solo oggi, avrebbero preso coscienza di quanto inquinamento chimico, acustico e meccanico hanno sopportato. E’ la goccia che fa traboccare il vaso. All’imprenditore passa ogni fantasia e, fiducioso nella chiusura d’ogni vertenza, dismette partita iva, attività ed iscrizione camerale. L’azienda passa a miglior vita, con essa anche i contratti di lavoro dei dipendenti. In tanti obietteranno “ma era solo una piccola azienda artigianale, dava lavoro solo a quattro dipendenti”. Peccato che nel 2014, solo a Roma di simili attività ne siano morte circa 10mila, e con una media di quattro dipendenti per azienda. Naturalmente l’ex datore di lavoro non rimane a farsi impallinare, cerca subito di vendere mura del locale ed abitazione privata (sempre che siano di sua proprietà), con quel che racimola prova a far fortuna altrove. Il 60% degli imprenditori scottati dal sistema Italia scommette sull’Europa centro-orientale, la restante parte opta per occultare i capitali nel paradiso domestico (sotto il mattone) o per ricominciare tra Sud America ed Australia.
E’ innegabile che alla fuga delle imprese abbiano collaborato gli ex ministri Severino e Cancellieri che, governando il dicastero della giustizia, hanno fatto schizzare alle stelle i “contributi unificati” e detto agli avvocati che i loro onorari vanno in percentuale al valore delle cause. Così, se a chi tira a stento la carretta viene intentata una richiesta risarcitoria per 10milioni di euro, al tapino non rimane che fuggire, abbandonare il campo. Il diritto alla giustizia civile è ormai per pochi, anzi per i soli ricchi. A riprova il fatto che per l’1,86 miliardi di debiti della Sorgenia (azienda delle Compagnie Industriali Riunite della famiglia De Benedetti) si usino i guanti gialli, mentre la giustizia è più che pronta con i sequestri quando la citazione per danni piove su un povero artigiano qualsiasi.
Eppure in giurisprudenza si parla espressamente di “lite temeraria”, soprattutto quando si trascina in giudizio con mala fede (colpa grave e intenti dilatori) il povero malcapitato. Per i padri del nostro diritto si trattava d’un comportamento illecito, teso a far soccombere una parte puntando soprattutto su un mirabolante risarcimento danni. Oggi tantissimi italiani vengono chiamati in giudizio senza che ve ne sia motivo. Ma non riescono a far valere le proprie ragioni, non possedendo i requisiti per il gratuito patrocinio e nemmeno le risorse per una difesa adeguata. Eppure il nostro codice prevede che, per il risarcimento da lite temeraria, non sia necessario dover fornire la prova concreta del danno subìto. Ma questa è accademia. Che succederebbe se un condominio di piccoli artigiani e pensionati di fascia bassa venisse chiamato in giudizio per 10milioni di euro (ovviamente è un esempio) da un ricco vicino che s’inventa di ricevere danno d’immagine alla propria catena di negozi, e per le fatiscenti condizioni della facciata condominiale? Il condominio di poverelli dovrebbe rivolgersi ad un legale che, vista la richiesta, direbbe loro: “Le cause vanno seguite e curate, il valore della vostra supera i 10milioni di euro. Capite bene che se ricevessi una visitina a studio dalla Finanza non potrei mai dire d’aver preso poche migliaia d’euro per una causa del valore di 10milioni…”. “Ma è una lite temeraria - obietta un tapino di condomino - è il lupo che alla fonte si rivolge all’agnello”. “Va dimostrato in tribunale - esclama il principe del foro - non prendo in carica la causa senza un anticipo di 50mila euro”. Ecco che certi legislatori hanno schiacciato il diritto, soffocandolo sotto un cumulo d’inutili norme.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:21