
Leggi Il Messaggero dell’altro giorno e apprendi che nel luglio del 2010, a Roma, Bernardino Budroni “in uno scatto di rabbia si era appropriato della borsa di un’altra fidanzata e quando i carabinieri andarono a casa per recuperarla trovarono anche una balestra appesa a una parete e il fucile a piombini”. Per quella circostanza la giustizia italiana celebrò un processo con testimoni, requisitoria del pubblico ministero e arringa del difensore d’ufficio. Al termine di quel “giusto processo”, l’uomo fu condannato a due anni e quattro mesi di reclusione.
Per Budroni, poi, un’altra disavventura (per così dire) sentimentale. Nel luglio del 2011 tentò di sfondare a picconate il portone dell’ex fidanzata e rimase ucciso qualche ora dopo dal colpo di pistola sparato da un agente di polizia che lo inseguiva sul Grande raccordo anulare. Per quel tragico episodio, un agente è sotto processo per omicidio colposo.
“Il tribunale di Tivoli - ci fa sapere ancora Il Messaggero - ha disposto con sentenza che Budroni debba pagare un’ammenda di 150 euro per la detenzione abusiva in casa di una carabina a piombini. Per i familiari che, ovviamente, hanno ritirato per lui l’avviso è stato uno choc. Dino, come lo chiamavano in famiglia, infatti, era già stato processato e condannato un’altra volta dopo la morte e a loro insaputa e tra l’altro anche per quel fucile. L’altra sentenza era del 2012, a un anno esatto dalla tragedia del Gra”.
E, a questo punto, e anche in questo caso, la giustizia sembrerebbe essere sfatta più che fatta: la condanna, e per due volte, di una persona deceduta, ci sembra a rigor di logica oltrepassare ogni ratio immaginabile. Per dirla con l’avvocato della famiglia Budroni, “ci dispiace che in una giustizia immersa da un oceano di arretrati si disperdano le energie per processare i morti. La morte estingue il reato”. Ma, forse, anche questo “particolare” a qualcuno sembra ancora sfuggire.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:17