
Egregio direttore,
la dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’articolo 5 recita: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”. A tal proposito, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’Uomo ha ritenuto il “fine pena mai” trattamento inumano e degradante, con un’importante decisione depositata il 9 luglio 2013 nel caso Vinter e altri c. Regno Unito. Ha in particolare affermato che l’ergastolo senza possibilità di revisione della pena è una violazione dei diritti umani, poiché l’impossibilità della scarcerazione è considerata un trattamento degradante e inumano contro il prigioniero, con conseguente violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani.
“Il nostro sistema è sotto osservazione, terreno dell’effettività delle garanzie, dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che pone vincoli e limiti per l’attività giudiziaria e per l’ordinamento nazionale. Rispetto a tali vincoli, l’atteggiamento di chi intende operare per rafforzare la dimensione comune dell’Europa non può essere quella di resistenza o, peggio, di rifiuto. Al contrario, occorre impegnarsi seriamente e in concreto per trasformare tali indicazioni e vincoli in opportunità e occasioni di riforma del nostro sistema e, insieme, di rilancio di una Unione effettivamente fondata su libertà, diritti e giustizia, che rappresentano l’essenza del modello europeo di convivenza in uno Stato costituzionale di diritto. Ciò significa che il giudice è chiamato a confrontarsi non soltanto più con la Corte dei diritti umani il cui “diritto” è tenuto a conoscere e ad applicare” (dott. Ernesto Lupo, ex primo presidente della Corte di Cassazione; apertura dell’anno giudiziario 2012).
Una riflessione che ambisca ad una dignità scientifica, deve innanzitutto porre in chiaro i presupposti metodologici che in essa operano. Non si può e non si deve tacere quindi sulle accidentalità particolari che si concretizzano in una forma di vita, unica e irripetibile, qual è quella dell’individuo.
Direttore, chi le scrive sono i detenuti del carcere di Sulmona, da quasi un anno divenuto Istituto per detenuti di Alta Sicurezza, dove sono confluiti circa duecento condannati all’ergastolo ostativo, ad eccezione di qualcuno, significando che la probabilità che abbiamo di vedere la libertà è un’utopia, in quanto destinati a morire in carcere per via di un articolo (art. 4 bis, comma 1) della legge penitenziaria, introdotto circa 22 anni fa, quale legge emergenziale, ma mai più rivisto dal legislatore.
È giusto e sacrosanto che venga applicata una pena a chi commette un crimine e che tale pena venga espiata ma, come diceva padre David Maria Turoldo, “nessuno uccida la speranza, neppure del più feroce assassino, perché ogni uomo è un’infinita possibilità”. Purtroppo le leggi attuali questa possibilità non la consentono a nessuno, neppure a chi potrebbe essere stato condannato innocentemente, oppure a chi, in oltre vent’anni di detenzione, si è ravveduto facendo un percorso di revisione critica consapevole dei propri errori, ai quali comunque non può più porre rimedio non essendo più il soggetto che era al momento del crimine commesso, ma essendo diventato un individuo diverso perché la detenzione lo ha cambiato facendolo maturare negli anni. Perché è a questo che serve la rieducazione e la finalità della pena.
Tuttavia non è sufficiente per il legislatore e poco o nulla può fare la magistratura di sorveglianza, che il più delle volte si trova con le mani legate da leggi alquanto discutibili perché in contraddizione tra loro. Quello che vorremmo è di spingere il legislatore e tutti i lettori a un a seria riflessione: che senso ha rieducare per legge una persona che per legge è stata condannata a morire in carcere? Perché attuare nei suoi confronti un trattamento penitenziario che implica farlo lavorare, studiare, colloquiare con educatori, assistenti sociali, psicologi, criminologi e, perché no, anche con il magistrato di sorveglianza che si reca in carcere ad incontrare l’ergastolano ostativo, al quale non concederà mai il beneficio, se poi il tutto non produrrà nessun effetto utile per la società?
Ma proprio per cercare di superare questa contraddizione, il 26 Luglio 2012, è stata istituita con delibera del Consiglio Superiore della Magistratura di Sorveglianza, composta da tre componenti dello stesso Csm, uno dei quali in funzione di coordinatore, tre magistrati designati dal ministro della Giustizia e sei magistrati di sorveglianza, in seno alla sesta Commissione. Il risultato dei lavori, che si sono conclusi il 30 ottobre 2012, è compendiato in un articolato elaborato al quale, però, non è stato dato seguito. Eppure sulla polifunzionalità della pena si è più volte pronunciata la Corte Costituzionale a far data dalla sentenza n. 3131 del 1990, la quale stabilisce che “tutti i soggetti che partecipano alla dinamica della pena rispondono a questo medesimo vincolo teleologico: il legislatore (nella fase della commisurazione della pena), il giudice di sorveglianza al pari della polizia penitenziaria (nella fase della sua applicazione), perché l’evoluzione compiutasi nella giurisprudenza Costituzionale è nel senso di una valorizzazione in massimo grado della finalità di risocializzazione del reo. Ed è proprio nella sentenza n. 137 del 1999, in materia di permessi premio che ha affermato che “non si può ostacolare il raggiungimento della finalità rieducativa, prescritta dalla Costituzione nell’articolo 27, terzo comma, con il precludere l’accesso a determinati benefici o a determinate misure alternative in favore di chi abbia già realizzato tutte le condizioni per usufruire di quei benefici e di quelle misure”.
Ribadendo ancora, che l’esperienza dei permessi premio rappresenta parte integrante del programma di trattamento, quale fondamentale strumento di rieducazione in quanto idoneo a consentire un iniziale reinserimento del condannato nella società così da poter trarre elementi utili per l’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione; trattamento al quale, è bene ricordare, è sottoposto anche l’ergastolano ostativo. Purtroppo per l’ennesima volta il legislatore ha fatto una scelta, sulla liberazione anticipata speciale, che in un primo momento includeva tutti i detenuti (con il dl 23.12.2013, n. 146), per poi apportare delle modifiche ed escludere, in sede di conversione in legge, i detenuti per reati di cui all’articolo 4 bis Ord. Pen.
Già in passato su questo tema la Corte Costituzionale si è pronunciata riscontrando una palese violazione degli articoli 3 e 27 comma 3 della Costituzione, in quanto tale beneficio non era una misura alternativa e non si applicava in base al reato commesso, bensì sulla base del comportamento e della positiva adesione al trattamento rieducativo del detenuto. Per questo non si comprende perché il legislatore debba penalizzare quella parte di detenuti che pure al trattamento accettano di aderire con convinzione e serietà e vivono, al pari degli altri, tutte le condizioni inumane e degradanti che attualmente il sistema penitenziario attraversa.
I detenuti della sezione Alta Sicurezza della Casa di Reclusione di Sulmona
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:01