
“No to war! Adolf Putin stop”. Gli ucraini della Capitale si radunano sotto una bandiera blu, bianca e rossa per protestare contro l’intervento di Mosca in Crimea. I colori della Russia sono il nemico e la difesa è l’unica strada per restare vivi.
Alessia, Aleksandra, Fyodor, Igor e Danil sono alcuni dei tanti volti radunati l’altro ieri pomeriggio a Castro Pretorio vicino all’ambasciata russa. Mostrano cartelli, intonano slogan contro Mosca, c’è qualcuno che si tira in disparte, fa una telefonata e si mette la mano sul viso disorientato. Alessia è una donna di mezza età. Capelli raccolti, abbigliamento curato, buon italiano. Viene da Leopoli, dalla parte occidentale dell’Ucraina. È la più decisa del gruppo. “Sveglia! Vi dovete svegliare, ma non vi rendete conto del pericolo? Dov’è l’America, dov’è l'Inghilterra? Putin non si fermerà a Simferopoli”. Lo dice con tono di madre. Nessuna supponenza o arroganza. Legge un pericolo che forse noi Europei, a migliaia di chilometri di distanza non riusciamo a vedere.
All’inizio ti guardano con diffidenza. Che ci fa un giornalista tra noi? Si chiedono. Lo leggi nelle smorfie di chi sta lontano dagli affetti più cari. Il mondo va così, lontano da casa non sei nessuno. Poi si sciolgono e sono un fiume in piena. Scambi due chiacchiere e ti accorgi che sono ben informati. Uno cita Sergio Romano, storico ed ex ambasciatore a Mosca, che in un articolo di giornale ha aperto all’interventismo russo. Lo ripetono in tanti dalle redazioni e dalle aule accademiche: “In fondo la Crimea è a stragrande maggioranza composta da russi”. È l’opinione dominante. Ma questa gente, questi manifestanti silenziosi, riuniti confusamente su un marciapiede di Roma, non arruolati da nessuno se non dal desiderio di decidere liberamente il proprio destino, dimostra il contrario.
“È come se un romano si opponesse a un’invasione austriaca nel Sud Tirolo. Che fareste?”. Parla Igor. Anche lui viene da Leopoli. “Mi chiedono continuamente se c’è qualcuno della parte orientale, vogliono sapere di Sebastopoli, della comunità russofona”. Ma gli risponde un ucraino. “Siamo russi, polacchi, tatari tutti riuniti in un unico Stato indipendente e sovrano che ha una sua storia. Nato dalle ceneri della defunta Unione Sovietica. Un popolo povero di gente che fugge in cerca di oro verso l’Europa. Non basta?”. Sono più che arrabbiati. La delusione si avverte da come parlano. Non hanno fiducia. Spesso ripetono: “Ti stiamo annoiando?”. Si sentono traditi. Come si sentirebbe tradita una persona lasciata sola nel momento del bisogno. Senza essere retorici: vogliono che la Russia si ritiri e che qualcuno stia dalla loro parte senza troppe chiacchiere.
Danil ha un fratello vicino a Donetsk, una delle città in queste ore infiammata da sommovimenti filorussi e patria dell’ex dittatore Yanukovich. È operaio in una fabbrica russa. Il suo racconto è interessante. “Avete presente le immagini che arrivano da laggiù? Quelle delle persone in strada con le bandiere russe che sventolano? C’è una cosa da sapere che non ho letto da nessuna parte. Spesso è il datore di lavoro che spinge a manifestare. Fa parte del disegno di disinformazione. Lo stesso che ha fatto arrestare 300 manifestanti contro la guerra a San Pietroburgo. I russi pagano i dipendenti perché vadano in piazza”. E chi si rifiuta? “Licenziato”.
Fyodor è qui per caso, ha una sessantina d'anni e qualche chilo di troppo. Va a prendere la metro, quando si imbatte nel sit-in dei connazionali. Non dice da dove viene né per chi simpatizza. Abita poco fuori città con la famiglia e, del passato, non vuole parlare.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:12