
“L’Unità” domani compie novant’anni (12 febbraio 1924). Un bel traguardo anche per “un quotidiano degli operai e dei contadini”, costretto quasi subito (nel novembre del 1925 insieme all’Avanti) a cessare le pubblicazioni - a seguito delle restrizioni decise dopo l’attentato a Mussolini da parte del quindicenne Anteo Zamboni - e vivere come “foglio clandestino” per circa vent’anni.
Secondo il fondatore Antonio Gramsci, “il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito. Dovrà essere un giornale di sinistra e si chiamerà Unità pure e semplice”. Nasce a Milano, 20mila copie, primo direttore Ottavio Pastore. Divenuto organo del Partito comunista, il giornale viene stampato e diffuso in clandestinità a Lilla (Francia) sotto la direzione di Riccardo Ravagnan. Solo nel 1942 tornerà ad essere redatto in Italia (seppure ancora in clandestinità) fino all’arrivo degli “Alleati” (5 giugno 1944) quando, con il nuovo direttore Celeste Negarvele, il giornale può riprendere a Roma le pubblicazioni ufficiali.
Il 2 gennaio 1945 la redazione s’insedia a via IV Novembre nel palazzo dei sindacati fascisti che lì avevano la tipografia per la stampa sindacale. Nuovo direttore è Velio Spano, un militante del Pci, combattente partigiano. Quattro le edizioni: Roma, Milano, Torino, Genova. Arrivano a collaborare alcune grandi firme come gli scrittori Italo Calvino, Cesare Pavese, Elio Vittorini e poi Paolo Spriano, Ada Gobetti, Davide Lajolo, Massimo Rendina. Intorno al giornale il partito crea una vasta rete di intellettuali, dà vita alla Festa dell’Unità (che si terrà in tutti i paesi e con una manifestazione nazionale), inventa la diffusione “casa a casa” la domenica mattina attraverso i “diffusori volontari”, che lasciano il giornale gratis. È la prima promozione pubblicitaria di massa, l’Internet manuale ante litteram. Il giornale come strumento di propaganda politica, spesso l’ultima pagina è un manifesto. Cresce negli anni il ruolo del Pci all’opposizione e si allarga la diffusione del giornale con alcuni numeri speciali, il 25 aprile e il primo maggio, che superano il milione di copie.
Il controllo del partito sul giornale è stato sempre molto stretto dai tempi di Togliatti e Longo ai vari segretari che si sono seduti sulla poltrona di direttore, da Massimo D’Alema a Valter Veltroni. È con Mario Alicata e Aldo Tortorella, responsabili per l’edizione settentrionale, e Luigi Pintor per quella meridionale, che l’Unità acquista dagli anni Sessanta una connotazione nazionale. Nel 1969 subisce la fuga del gruppo Lucio Magri, Luigi Pintor e Rossana Rossanda che, espulsi dal Pci, fondano “Il Manifesto”. Durante gli anni di piombo il quotidiano mantiene una tiratura elevata, oltre 240mila copie. La crisi provocata a sinistra dall’esplosione delle Brigate Rosse fino al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro provoca uno sbandamento dei lettori.
Altro duro colpo all’immagine viene inferto dal caso Maresca (il giornale pubblica un documento fornito alla giornalista napoletana dai servizi segreti sulle collusioni tra il ministro democristiano Scotti e la camorra, che si rivelerà falso). Il direttore Claudio Petruccioli (poi presidente della Rai) è costretto a dimettersi. Grazie agli inserti “Tango” e “Cuore” il giornale sotto Emanuela Macaluso si riprende. Con Veltroni partono grandi iniziative (film in cassette Vhs ogni sabato, sito Internet, stampa dei Vangeli). Le spese si allargano e il quotidiano entra in crisi economica.
Gli ultimi vent’anni sono uno stillicidio di crisi, la più grave nel 2000 quando il giornale viene messo in liquidazione. Girandola di imprenditori di area in soccorso, girandola di direttori (fino a Concita De Gregorio, Claudio Sardo, Luca Landò), diminuzione di redattori e di copie vendute, scese in tre anni da 40.641 a 23.544.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:09