
Tredici anni fa Fonte Nuova divenne Comune attraverso una legge regionale (25/99), ritagliandosi un territorio dal distacco di alcune frazioni (Tor Lupara e Santa Lucia) dai comuni di Mentana e di Guidonia, dove vennero riunite in un contesto sparso e multicentrico poco meno di 30mila persone. Il contesto è quello della grande provincia di Roma, la più popolosa del Paese (1,5 milioni di abitanti), anch’essa sparsa tra 121 comuni, con un territorio che copre un terzo del Lazio e ha un’estensione territoriale inferiore solo ad altre otto province. Non fosse la vicinanza dominante della Capitale, la sua provincia, tante volte ridicolizzata benevolmente come burinia, verrebbe apprezzata come un piccolo colosso, forte di un Pil antecrisi di 50 miliardi (superiore a quello della Liguria).
Questo ampio territorio, degno dei panorami del mitico far-west, tra monti, mare, fiumi e lagghi, all’incrocio tra antiche produzioni minerario-cementizie ed i mega-outlet, ha almeno una quindicina di centri, tra gli 80mila ed i 40 abitanti, tutti destrutturati dall’assenza di punti di riferimento centrali. Un vuoto che la marea immigratoria ha ancora più allargato. Fonte Nuova segue, tra bretelline, strane sculture feline, sagre della castagna e di San Remigio, rami pericolanti, strade dissestate, cavalli e cinema in crollo. La natura furba e selvaggia, spietata e accomodante, rissosa e indifferente delle popolazioni, sprezzanti di diritti però reclamati, spesso non ha le idee chiare ma non è mai banale. Esprime, come anche la regione, una naturale propensione per la destra, ma sociale, qualcosa che vuol essere tutto e il suo contrario.
Appena sorta, a Fonte Nuova si insediò sindaco Graziano Di Buò, volto coriaceo da compare latino di Eastwood. Durò pochi mesi, poi le lotte per la ripartizione finanziaria, patrimoniale e del personale tra vecchi e nuovi comuni condusse a ben due commissariamenti, al nuovo sindaco di centrosinistra Vittori, fino al ritorno nel 2009 di Di Buò. Per opera del professore di liceo Davide Tedeschini, qui nel 1998 (quando era ancora Mentana), nacque, in locali di famiglia, una galleria d’arte contemporanea al civico 20 di via Machiavelli.
Nel 2005 si aggiunse il museo, fino all’unificazione, l’anno dopo, delle due sedi, sotto il Consorzio cultura d’arte. Per dieci anni il giovane Tedeschini promosse in un territorio difficile arte, biblioteca, laboratori d’incisione, una sala convegni da 60 posti, comoda comunque alla politica. Si batté come un leone contro la soverchiante forza dell’Università di Bologna, in occasione della morte del critico d’arte Federico Zeri, avvenuta a Mentana nel 1998. “Zeri - ricorda Tedeschini - voleva che la sua villa nella campagna di Roma fosse un centro di storia dell’arte. Romano, amava questa terra. Ma l’Università di Bologna come dichiarato dal suo rettore, non la ritiene un luogo adeguato a questa funzione.
L’associazione che rappresento ritiene l’episodio di Villa Zeri, simbolo di una cultura contraria allo sviluppo, che svilisce l’identità culturale dell’area metropolitana di Roma e dell’immagine stessa di Federico Zeri, che è andato incontro a situazioni di disagio e pericolo poiché avversato dal clima clientelare delle Università”. Dopo il trasferimento del Lascito Zeri in Emilia Romagna (2013, senza aver ricevuto alcun finanziamento in dieci anni, il Museo di Tedeschini ha chiuso. Nel 2011, sotto l’amministrazione di centrodestra, in occasione del decennale di Fonte Nuova, la beffa del Simposio delle Arti, organizzato in parrocchia senza il minimo coinvolgimento delle associazioni, espresse bene il disinteresse delle amministrazioni succedutesi.
Questo il background del Davide Tedeschini gallerista, che poi si è fatto critico d’arte sullo storaciano Giornale d’Italia, e che ne ha raccolto 20 articoli-saggi nel volume “Senza Arte né Parte” (I Libri de Il Borghese, ed. Luciano Lucarini), presentato a Roma a Palazzo Ferrajoli per il coordinamento di Parroccini. La sua terza opera (dopo “La Scatola Aperta” del 1999 e “La Rimozione Silvetti” del 2007) brilla per ironia, come è facile capire da qualche titolo: “Una non-sfilata”, “Nudo, vittima della riforma”, “Rivoluzione culturale del circo cinema”, “Di tanti musei non se ne fa uno”; è un viaggio dissacrante tra le amenità, i ritardi e le stupidità del circo d’arte e non romano e italico.
Al contrario di altri intellettuali di area, Tedeschini è però immerso nella cronaca e nel futuro, dall’ecorelativismo all’architettura dei “non luoghi”, dall’arte sacra contemporanea al multiculturalismo ed all’arte delle banche, dagli artisti stranieri a quelli italiani. Non è nemico della modernità e dell’innovazione, né lo si potrebbe dire revisionista tout court. Forse per questo il volume non risponde alle domande del quarto di copertina (Che c’entra l’arte contemporanea con la destra sociale? Quali i problemi della cultura italiana?) Semmai, anche per esperienze già vissute, condivide il pessimismo cosmico del giornalista Gennaro Malgieri. Cosa comprensibile, ma non definitiva: c’è una grossa differenza tra il j’accuse datato e missino dell’ex deputato, rispetto al Nostro, non fosse altro che per un dato generazionale.
Si rischia di passare sopra superficialmente all’enorme e viva presenza privata di gallerie ed artisti, presente nella penisola e non porsi le vere domande relative ai trend dei mercati dell’arte contemporanea e delle case d’asta. La quota italiana è solo del 3% del mercato europeo, circa 450 milioni per una spesa pro capite di 7,5 Euro. UK al 65 %, Francia al 17% e Germania al 5 % contribuiscono alla leadership europea nell’investimento in arte che vale 15,6 miliardi di euro, contro i 14 cinesi ed i 13,6 Usa (34%, 30% e 29% del mondo). In Italia non è piccolo il volume dello scambio delle opere contemporanee, soprattutto scultoree, ma al 7,9% dei volumi corrisponde lo 0,7% dei valori economici.
Secondo il rapporto sul Mercato dell’ Arte Tefaf (Euro Fondazione Belle Arti), gli italiani non comprano arte contemporanea come avviene altrove, non vengono educati a saperla distinguere, né vengono aiutati da leggi tese a favorire la crescita del mercato dell’arte come avvenuto in Francia, dove la spesa pro capite è di 46 euro (Svizzera 212, UK 169, USA 43, Svezia 38, Austria 37, Paesi Bassi 20, Cina 11,5, Germania 10). In realtà grazie al turismo, poi l’arte nel suo complesso arriva a valere 60 miliardi. Sicuramente la politica in termini di arte e cultura ha dimostrato di essere “Senza Arte né Parte”. Ed ai tempi di Bondi ministro anche la destra (assieme al concerto antiberlusconiano) dimostrò di esserlo, partecipando ad un linciaggio immotivato nell’anno in cui Roma, con i musei Maxxi e Macro, era divenuta capitale artistica nel mondo.
Non sempre tutto è colpa degli storici dell'arte, professori, artisti, architetti, giornalisti, volti televisivi che si nutrono di un enorme impegno economico statale e di non merito. Tutti possono fare meglio, cominciando con il non chiudersi nei ghetti culturali, con il non ridurre blog e giornali a megafono della propaganda dell’eletto. Quanto al Lazio, malgrado l’epopea turistico-culturale della Città eterna, la cui stessa provincia si dice Capitale, la capacità culturale della locale partitica rasenta il suolo. Non è vero che la gente voglia così; semmai anche dalla cultura e dall’arte possono venire risultati. Il centrodestra si è affidato a Fazzone, che troverebbe in Tedeschini un giovane meritevole di occuparsi di cultura, da progettare, da fare, da fruttare. Non solo da criticare.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:02