
Il presidente di Confindustria ha rilevato il rischio della desertificazione industriale e ha chiesto al Governo “un intervento deciso di politica industriale” per rilanciare il settore manifatturiero e un impegno serio sul caso Electrolux. Multinazionale svedese con ricavi oltre i 13 miliardi e 60mila dipendenti, presente anche nei Paesi europei in cui la manodopera è molto competitiva, l’Electrolux ha proposto, forse provocatoriamente, lo comprenderemo meglio nei prossimi giorni, di mantenere gli insediamenti produttivi in Italia a costo di una drastica riduzione degli stipendi. I sindacati sono insorti, ma non con la virulenza di altri tempi, ragionevolmente temendo la radicalizzazione del confronto, e non è il caso.
Le dichiarazioni sono prudenti. Gli esponenti sindacali e confindustriali sanno che la cassa integrazione è agli sgoccioli e temono, oltre alla latitanza del Governo, devastanti comportamenti imitativi. La segnalazione dei deficit strutturali denunciati dall’Electrolux in tema di pressione fiscale, di costo del lavoro e dell’energia, in effetti si propone sia come sollecitazione virtuosa destinata a istituzioni e sindacati, sia come doverosa motivazione di una grande multinazionale che partecipa da oltre cento anni alla storia dell’industria europea e non può permettersi di chiudere gli stabilimenti tout court e andarsene, insalutata ospite. I temi di politica economica, che il presidente di Confindustria ha tentato di imporre all’agenda del Governo fin dal suo insediamento, ora sono drammaticamente sul tappeto e non possono essere elusi, essendo in discussione, soltanto nel caso Electrolux, le sorti di decine di migliaia di dipendenti diretti e dell’indotto, oltre che di professionisti e di fornitori.
Il Governo, sfiduciato nel Paese dalle tante inadempienze politiche e dai provvedimenti temerari assunti in favore delle banche, che non godono di buona fama, saprà reagire? I segnali che il Governo sia in grado di assumere iniziative virtuose, purtroppo, sono sfavorevoli. Che almeno sappia reagire alle istanze di intervento, in ottemperanza ai doveri istituzionali! Tentare di colmare il gap ogni giorno più profondo che divide le istituzioni dai cittadini, già sarebbe un segnale, debole, ma utile, molto utile, nelle circostanze drammatiche in cui versa la società italiana (con poche eccezioni e, come si apprende continuamente, non certo dovute alle ragioni dell’impegno e del merito).
L’Opinione, vox clamantis in deserto, fin dal 2004 ha trattato con competenza e con vigore i temi degli sprechi pubblici, delle società territoriali a partecipazione pubblica, spesso funzionali alle clientele e al voto di scambio, e delle carenze di industria e finanza, denunciando la superficialità e la sprovvedutezza delle istituzioni competenti e dimostrando che la partecipazione alla vita pubblica dell’organo di informazione attento e indipendente e del cittadino responsabile e informato è fattore ineliminabile di democrazia e di libertà. I fatti hanno dato ragione alla denuncia e all’esercizio della previsione. Il dissesto della società quotata Seat Pagine Gialle, più volte trattato su queste colonne, approdato nella sezione fallimentare del Tribunale di Torino, è dovuto alle operazioni originarie di leveraged buyout e di distribuzione del maxidividendo in assenza di riserve.
Dopo due anni di contestazioni da parte di una valorosa pattuglia di azionisti di minoranza che hanno perso tutti i loro risparmi con il crollo del titolo azionario, ora lo riconosce anche la direzione in carica, che alla prossima assemblea della società proporrà l’azione di responsabilità nei confronti della direzione precedente. È ben vero che il confronto non è concluso, perché le responsabilità sono più complesse e i singoli azionisti pretendono, a norma di legge, il risarcimento del danno subito. Ma il principio della responsabilità è stato dichiarato a dimostrazione del fatto che le istituzioni non vegliano spontaneamente sui risparmi dei cittadini disinformati e inattivi e che l’iniziativa personale a tutela dei propri diritti è sempre necessaria. Nei prossimi giorni sarà trattato il caso di un’altra vicenda meno importante sotto il profilo economico e finanziario, ma altrettanto significativa, quanto alle conseguenze perverse di operazioni di leveraged buyout che si sono succedute provocando il crollo del fatturato e la consegna della leadership di settore, fino a pochi anni fa detenuta saldamente, ad una azienda estera.
È il caso della società per azioni Unopiù, dislocata in provincia di Viterbo, nota in Italia e all’estero per la produzione di arredi degli ambienti esterni, acquistata e ceduta più volte con ricorso all’indebitamento. A causa del debito, che ha premiato i soci di controllo e qualche fondo, la società ha sacrificato personale dipendente e creditori, rivolgendosi al tribunale fallimentare dapprima per l’approvazione della ristrutturazione dei debiti (espressione edulcorata che significa tagli e dilazioni), ora per il concordato preventivo (che significa ulteriori tagli e dilazioni). Il tribunale dovrà verificare, in base ad una recente sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che la diagnosi della crisi sia corretta e che la proposta di concordato sia sostenibile. Il tribunale e i creditori dovranno valutare possibili situazioni di conflitto di interessi e azioni di responsabilità e di ricostituzione del patrimonio sociale. L’Opinione farà un’inchiesta dando voce ai protagonisti e stimolando l’attenzione delle istituzioni competenti per materia, ma soprattutto rivolgendosi ai cittadini per allertarli sui loro diritti e sulla necessità della partecipazione alla vita pubblica.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:17