
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha partorito l’autoriforma della Legge 69 del 1963 istitutiva dell’OdG. Ad ottobre la popolata assemblea del Consiglio, forte dei suoi 150 membri (o meglio 144, cui si aggiungono 12 consiglieri di disciplina, cui la legge ha assegnato il ruolo di tribunale d’appello per le violazioni deontologiche, un tempo affidato al Consiglio), aveva demandato all’unanimità ad una commissione il compito di trovare una proposta condivisa tra i diversi gruppi. L’idea era di presentarla al Parlamento; a novembre era già pronta la bozza da discutere per l’approvazione finale a gennaio.
Se la tempistica è stata rispettata, e la segreteria dell’Ordine sta preparando per la diffusione il testo approvato, sono già partite polemiche brucianti. Infatti al momento del voto, il 21 gennaio, oltre la proposta della commissione incaricata della riforma, è spuntato fuori il testo alternativo del gruppo “Liberiamo l’informazione”, che pure era presente anche nell’altra commissione con 3 membri (Verna, Vitucci e Ricci). La commissione voleva mantenere la divisione degli attuali elenchi di professionisti e pubblicisti, mentre il testo alternativo ne chiedeva la fusione in un unico elenco, appoggiato anche da gruppi quali “Albo Unico” e “Senza bavaglio”.
A voto segreto, è prevalsa la divisione, appoggiata anche dalla segreteria OdG: 74 voti su 108 votanti, 3 nulle, 2 bianche contro i 49 favorevoli a LI del coordinatore Giancarlo Ghirra. Come raccontano i consiglieri, il dibattito del parlamentino giornalistico ha caratteristiche abbastanza frustranti. Tutto si concentra per motivi di risparmio nel poco tempo dei giorni di convocazione e senza pause. Ciascuno può prendere la parola su un argomento, ma, per sentire tutti, non sono permesse discussioni tra due o pochi di più, come non ci sono riunioni dei diversi gruppi per decidere modalità di presentazione delle idee comuni. “Si perdono ore e ore a parlare singolarmente senza una reale discussione perché non si può parlare fra di noi, non si può ribattere o controbattere o parlare due volte.
Si fanno delle semplici dichiarazioni di pensiero che alla fine lasciano il tempo che trovano. Si può solo esprimere il proprio pensiero. E poi tutti velocemente al voto”. In queste condizioni, più il tempo assembleare passa, più scattano i nervi. Tra i magnifici 150 non corre peraltro buon sangue, e non solo magari per le opinioni politiche e professionali diverse se non opposte. C’è sempre contrapposizione tra pubblicisti e professionisti, che qualche volta assomiglia alle polemiche tra ragionieri e dottori commercialisti; c’è quella tra i pubblicisti pensionati nemici delle innovazioni proposte dai colleghi giovani, contro i quali si muovono anche i pubblicisti che accusano i modernisti: “Ci volete far perdere il lavoro”. Strisciante, largheggia la reciproca disistima.
“L’Ordine professionale dei giornalisti si è di fatto consegnato, forse definitivamente, ai 50mila e passa pubblicisti che di regola non fanno i giornalisti di professione ma altri mestieri, coltivando nel tempo libero la passione per la scrittura; oppure, come purtroppo sempre più spesso accade, iscritti ad altri ordini professionali che solo perché sono riusciti ad avere il tesserino da pubblicista vengono a dettare le regole in casa nostra, a chi il giornalista lo fa di mestiere”. Ci si guarda in cagnesco, ci si fanno i conti in tasca. Quello è un funzionario pubblico ipergarantito che sulla scorta della legge 150 vuole pure i privilegi del giornalista. Quell’altro, un pensionato che lavora ancora bene e paga pure la metà dell’iscrizione annua quando un precario o un disoccupato deve pagarla intera. Quell’altro non scrive un pezzo da vent’anni ma è sempre affaccendato attorno alle casse previdenziali e di assistenza sanitaria, oppure alle corti del sindacato, dell’Ordine, della Federazione della stampa.
Si ostinano a rimarcare ogni due righe la propria professionalità, deontologia, etica, ma i primi pronti all’auto-delegittimazione sono gli stessi giornalisti. Il secondo giorno di dibattito, mercoledì 22, dopo tante stentoree declamazioni oratorie che spaziano dallo stile dannunziano al postmoderno freaketton-cinico, i nervi crollano sulla proposta di revisione della composizione del Consiglio Nazionale, presente all’articolo 5. L’hanno detto tutti che 150 eletti sono troppi, ricordando che per esempio l’esercito dei 200mila avvocati ha un parlamentino del proprio Albo di soli 24 consiglieri. La legge del ‘63 fissa il rapporto di presenza tra professionisti e pubblicisti a 2 a 1: cento eletti tra i primi e 50 tra i secondi.
La nuova proposta, rapporto di 3 a 2 tra professionisti e pubblicisti (90 e 60), fa gridare allo scandalo. Per qualcuno i pubblicisti hanno preso il potere. Per tanti pubblicisti, sconfitti sull’albo unico senza distinzione, è vero il contrario, tanto che alcuni di loro di Milano, Torino e Napoli emendano, cancellando qualunque riferimento alle proporzioni categoriali, demandato a futuri regolamenti. Eliminare però il riferimento dal testo rischia di autorizzare il legislatore a pensare che gli stessi giornalisti non intendano voler cambiare le quote attuali. Si alzano i toni, le urla, le offese, le dissociazioni, anche nella stessa Commissione che finisce per andare sotto sul punto 7 (voto per l’elezione degli Organi regionali e nazionali). Si vorrebbe tutelare le liste minoritarie, limitando le preferenze esprimibili.
In 48 dicono però no. Astensione dopo astensione, abbandono dopo abbandono, tra delusi e contrariati, il testo di riforma viene via via mutilato in un elenco di rinvii a future decisioni. Alla sera lo scrutinio segreto salva il testo ormai senza padri dichiarati, con 59 voti favorevoli e 57 contrari sui 121 votanti e 10 astenuti. Il testo finale, approvato di un soffio, piace poco anche al regista dell’operazione, il capo dell’OdG, Enzo Iacopino: “Volevo essere il Presidente che portava l’Ordine ad una Riforma (ma) non è quella che ho voluto. Il clima che si respira non mi piace”. In cauda venenum: LI di Ghirra, dopo la sconfitta, annuncia la raccolta di firme presso Ordini regionali e le redazioni per rovesciare l’esito del voto; e accusa, con Visani di Voltapagina e l’immancabile Articolo 21, l’OdG di Iacopino, vittorioso alle elezioni interne del 2013, con ben 8 sostenitori eletti sui 8 dell’esecutivo, di essere “controllato da una maggioranza sostanzialmente di centrodestra monopolizzata dai pubblicisti”.
Con buona pace della lista di destra L’Alternativa (Non siamo un “altro” sindacato; non ci riconosciamo nell’attuale gestione del sindacato unico e unitario dei giornalisti italiani) che non ha eletti nel Consiglio Nazionale. Da par suo il Presidente dei giornalisti ha alluso ai “professionisti dei multi-incarichi negli enti di categoria” parlando della “sinistra” giornalistica, “un’area politica (che) ha gestito per anni gli organismi, preoccupandosi di tutelare un’élite di garantiti; che ha osteggiato la legge sull’equo compenso, (che) anche recentemente si è tentato di vanificare”. I due campi non se la mandano a dire ed entrambi accusano l’altro di distruggere l’Ordine. All’offensiva “di sinistra” dei professionisti, a febbraio risponderà l’ottuagenario Falleri, leader incontrastato del voto pubblicistico nella Capitale con gli Stati generali dei Pubblicisti.
Si dirà che gli Stati sono “per chi questo mestiere lo fa per davvero e non certo per chi scrive un pezzo ogni tanto per un giornaletto, o per le schiere di avvocati, commercialisti e geometri che affollano Albo e Consiglio nazionale?”. Perché non chiamarli allora Stati dei professionisti? Alla fine del dibattito, c’è chi fa notare che la legge 69/63 non autorizza l’Ordine ad autoriformarsi, dato che dipende da ministero della Giustizia, unica istituzione abilitata a proporne cambiamenti al Parlamento. La corsa alle autonomie però potrebbe superare la lettera della legge, già tante volte non tenuta troppo in conto dalla politica.
Il panorama è il Corsera che vende la sua sede storica, il crollo della stampa, la minaccia al fondo per l’editoria, il diritto d’autore normato dall’Agcom nella passività parlamentare, i confini sbiaditi tra blogger e professionista come tra copyright e creative common o tra finte Iva e free lance, il dribbling Siae tra copia privata ed equo compenso. Giornalisti e poligrafici licenziati insieme all’AdnKronos, Espresso, Rcs e Messaggero, non riescono a fidarsi gli uni degli altri; insieme, timorosi e distratti dalle vicende dell’orda montante della marea di autori e giornalisti sfruttati da ogni forma di media, come da quelle dei non autori che invece incassano milioni dai diritti d’autore.
I rappresentanti dei giornalisti si sbranano sull’idea che ciascuno ha dell’Ordine; un organismo che ormai ha poteri solo sulla formazione, ovvero sul business (da condividere con le Università) del percorso formativo da imporre ai neo-giornalisti. Da quest’anno, peraltro, è obbligatoria la famosa formazione continua anche per pubblicisti e professionisti. Formati o no, non è chiaro quanto i giornalisti eletti ed elettori siano consapevoli del percorso cui li obbliga la trasformazione tecnologica dei media. O forse si attaccano a formazione e deontologia, come si farebbe con il bicchiere di vino, per dimenticare. Dimenticare la tecnologia, questo orco che distrugge le belle cose della vita d’antan: burocrazia, politica, giornalismo.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:07