La versione di Mieli sulla storia moderna

Paolo Mieli non è uno storico. E’ un attore della storia ed un autore della cronaca. Si ostina a voler scrivere di storia e di presentare il suo come un punto di vista imparziale. Paolo è però, secondo la regola italiana dell’eredità dei ruoli, un predestinato in quanto figlio del già direttore dell’Unità milanese, Renato. Agli occhi di un uomo qualunque, la storia del padre, ebreo egiziano, appare, al minimo, inquietante, sballottata in 40 anni tra i vertici del comunismo (Unità, capo-propaganda Pci) e dell’anticomunismo (Ufficio di Guerra Psicologica anglo-Usa, fondatore della filiale italiana di un centro d’intelligence Nato).

Renato scelse il primo mentre in Urss ripartiva la guerra interna antisemita, e abbracciò il secondo dopo lo svergognamento dello stalinismo. Ovviamente sul suo nome sono mancate inchieste e analisi pruriginose; e qualunque pensiero che rimandi a lotte di spionaggio sarebbe un automatico peccato che incontrerebbe l’immediata azione giudiziaria. Eppure si tratta di un uomo che conosceva la realtà delle cose molto di più della gran parte dei comuni mortali; un uomo che non aveva bisogno di leggere sui giornali gli eventi per farsi un’opinione.

Le sue opinioni cambiarono nel tempo in modo tale da farlo stare sulla cresta dell’onda sia da una parte che dall’altra, dall’Unità al Giornale ed al Corsera; da poter svolgere le proprie attività in strutture finanziate dai rubli, dai dollari e da Confindustria. Iscrittosi nel dopoguerra al Pci stalinista, finì con la paradossale nomina, nel 1990, a presidente del Centro vittime dello stalinismo. Il figlio Paolo è, secondo una storia comune, ricco e iperfiloproletario, a 18 giornalista a L’Espresso, sostenitore attivo della campagna di stampa omicida contro il commissario Calabresi.

Poi come il padre segue l’onda ed è uno nei nomi scelti nello svecchiamento necessario dei primi anni Novanta, quando si rende necessario mettere in cantina nomi e dibattiti di un trentennio di Pci e lotte operaie condotte da non operai. Inaugura il periodo da direttore a 40 anni (Stampa, Corriere della Sera, Rai), per poi passare nell’ultimo lustro all’alto management nella Rcs, la casa editrice strappata da Fiat e Mediobanca con le unghie e con i denti a Rizzoli. In una paradossale continuità, quando ha potuto Mieli è intervenuto nella storia sostenendo gli eredi dell’ex fronte para e comunista in nome di idee e progetti opposti.

E’ ben difficile dunque che Mieli riesca ad affrontare il tema posto dal suo ultimo libro, quello di fare “I conti con la storia”. Il problema dell’Italia moderna è sempre stato quello dell’indipendenza, per la quale le sono mancati coesione interna, senso della continuità, del rapporto omogeneo tra strutture e popolo. Come evidente, il vulnus che blocca questi fattori è l’individualismo, pronto per il proprio successo ad appoggiarsi a qualunque forza, anche esterna ed a condividere posizioni inconciliabili tra loro. Nel volume ci si chiede del perché la scomparsa di fascismo e comunismo non ha significato la fine dell’uso politico del passato.

La risposta è facile: perché larga parte della politica, dell’accademia, della burocrazia continua ad usare i valori opposti e diversi dei vincitori dell’ultima guerra, solo per mantenere le proprie posizioni e difendere potere e carriere. Si allude ad una memoria condivisa, che non è esistita, non esiste e non esisterà finché in Italia non sarà un dato scontato, come lo è nel resto del mondo, che il nostro Paese ha perso la guerra e che tuttora si trova per questo in una posizione minoritaria, come dimostra l’esistenza di alcune regioni speciali. Si invoca l’oblio come una virtù essenziale a ricomporre una comunità, quando questo è stato imposto, in modo scandaloso per i principali soggetti politici, mediatici e imprenditoriali, al punto da passare la spugna sui tre quarti della loro ascesa e dei loro atti.

Si ha un bel tirare in ballo Savonarola, Bottai, Giuda e Napoleone, i conti con la storia l’Italia li potrà fare quando i Mieli li faranno con se stessi e si ritireranno in buon ordine. Un esempio lo offre la Spagna, Paese dove la sinistra ha ucciso e profanato molto più della sinistra italiana, dove la destra ha ucciso e torturato milioni di volte di più della destra italiana. Uscita dall’isolamento postbellico, grazie al sostegno del socialista di destra Craxi, la penisola iberica ha chiuso il capitolo della lunga dittatura franchista riconoscendo i gravi peccati della sua destra e della sua sinistra.

Gli uomini del comunismo e del falangismo spagnoli non si sono riciclati, sono scomparsi. Le loro varianti moderate sono giunte al potere, nell’alternanza, senza rinfacciarsi le reciproche colpe di un secolo fa, nella coscienza che gran parte del disastro della guerra civile era dovuto all’appannarsi dell’indipendenza. In Italia siamo, come prima del Risorgimento, tornati alla ricerca dell’indipendenza. Con questa ricerca chi non è mai stato indipendente, non può fare i conti. Può solo scendere dalla cattedra. Sta però al pubblico ed agli studenti, se non cacciarlo, uscire dall’aula.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:07