Renzi, Landini (Fiom) e… la Rsu nei CdA

Nella paginetta di titoli (senza testo esplicativo) chiamata “Jobs Act”, messa in rete il 9 gennaio dal segretario del Pd Matteo Renzi, figurava al punto numero 6 il seguente ordine del giorno: “Legge sulla rappresentatività sindacale e presenza dei rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori nei Cda delle grandi aziende”. Due punti grossi come macigni, bisognosi ciascuno, anche solo per la semplice applicazione, di un grosso tomo. Lasciamo stare per l’applicazione.

Il giorno dopo Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno risposto, varando il regolamento attuativo sulla rappresentanza e la democrazia sindacale e ribadendo la solita posizione delle parti sociali del lavoro: non vogliamo leggi, facciamo da soli. Il primo tema (la rappresentanza) giustifica la strana amicizia evidenziatasi in diversi incontri tra il sindaco fiorentino e il vertice della Fiom. Landini, il segretario del sindacato dei metalmeccanici, negli ultimi anni ha chiesto a gran voce l’intervento normativo sulla rappresentanza sindacale. Il motivo scatenante della richiesta è un tipico esempio di eterogenesi dei fini.

I sindacati, dopo averla concordata, si erano divisi ferocemente sulla riforma contrattuale del 2009, fondamentalmente solo perché l’intesa si sarebbe realizzata sotto un Governo Berlusconi. L’opposizione della Cgil, poi, alla riforma firmata da Uil e Cisl, si era fatta blanda tanto che il primo sindacato aveva concordato con gli altri e con gli industriali due accordi, successivi, che riportavano in linea le cose. La lotta di principio proseguita dalla Fiom aveva però avviato un conflitto interno con la casa madre, rea di non proclamare lo sciopero generale. L’avvitamento, squisitamente di principio, è proseguito nel settore metalmeccanico, in particolare in Fiat, dove Fiom si è messa contro tutti, azienda e sindacati.

Il conflitto tra Fiat e Fiom è poi degenerato nell’esclusione dai tavoli sindacali della Fiom, nell’uscita di Fiat da Confindustria, per il debole supporto ricevuto, dalla nascita di un contratto ad hoc e dal passaggio dello scontro dall’azienda al tribunale. Fiom così è finita per allinearsi alla richiesta dei sindacati minori, quasi tutti di estrema sinistra, che hanno sempre chiesto una legge sulla rappresentanza, sulla base dell’accusa alle aziende ed ai tre sindacati maggiori di ricorrere a procedure utili (tra cui il 30% di eletti garantiti per le maggiori union) a escluderli dagli strumenti di lotta e confronto. Fiom stessa si è trovata nei fatti ad agire in modo schizofrenico: in Fiat si è trovata esclusa dai tavoli, ma in tutte le altre aziende è rimasta, da sindacato maggiore, con i privilegi ordinari di cui sopra, mentre in molte altre aziende ha applicato senza problemi il modello contrattuale riformato.

Renzi è stato, alla Provincia come al Comune, un privatizzatore attento ad abbattere i costi del bilancio del proprio ente, anche quando questi andavano a ribaltarsi su altre istituzioni o su aziende comunque legate al mondo monopartito economico-sociale della Toscana. Il suo approccio verso lavoro e sindacato ha privilegiato il problema degli esclusi dalle garanzie contrattuali, con implicita critica alle burocrazie della negoziazione.

Pur chiedendo semplificazioni, impegno, efficacia ed efficienza, non è stato particolarmente critico verso la riforma Treu e Biagi che hanno introdotto quelle 16 forme contrattuali che, moltiplicate per varianti temporali e anagrafiche, vengono poi giornalisticamente gonfiate nel numero inesistente di 40 o 52. Il politico Renzi non sembra voler garantire a tutti il contratto indeterminato con tutte le clausole sociali; semmai dà l’idea di voler portare il suo partito e soggetti vicini - come la Cgil - ad accettare peggioramenti per i 15 milioni di occupati privilegiati, così da accorciare le distanze con i 3,5 milioni di disoccupati ed i 3 milioni di precari. Non è certo l’uomo che si trovi a suo agio nel clima dell’assemblea, del conflitto permanente, della rivendicazione economica degli strati più bassi del mondo del lavoro.

L’idea di una legge, a proposito, per il neosegretario del Pd si presenta come l’occasione per eliminare gran parte delle fin troppo numerose sigle sindacali che nella scuola come nel pubblico impiego, settori dove solo in via di principio è presente il rischio di licenziamento, sono anche più di 50. Landini invece, nell’ipotesi della legge, trova il terreno più adatto a proseguire la lotta all’interno della stessa Cgil e poi in tutta la sinistra per rivendicare il ritorno di questa parte politica alla diretta rappresentanza dei lavoratori e dei meno abbienti. Partito dall’antiberlusconismo, il leader della Fiom è diventato un contestatore del pensiero politicamente corretto, sotto il quale si è collocata anche la sinistra dei Vendola e dei Fassina.

La sinistra politica, seguendo la via della morale contro la destra, accusata di delinquenza politica, ha abbandonato la contrapposizione in fabbrica scegliendo invece quella tra imprenditore disonesto e quello onesto, che in un modo o nell’altro rappresenta anche l’interesse dei suoi dipendenti. Anche Renzi condivide questa idea dicotomica, allargandola anche ai lavoratori, tra i quali ci sarebbero gli onesti produttivi ed i disonesti scansafatiche tra cui i sindacalisti. Quest’ultimo pensiero, però, non è “correct”. Così, nella completa diversità, Landini e Renzi possono condividere l’idea della legge sulla rappresentanza.

Per il primo la norma eliminerà i sindacati moderati, che da gialli fanno gli interessi del padrone; per il secondo invece depoliticizzerà la presenza sindacale, facendone un organo aziendale. La seconda parte della proposta, infatti, che prevede l’entrata nei Cda dei lavoratori, analoga alla riforma in Acea tentata dal sindaco Alemanno, non può che realizzarsi (per essere seria) con i meccanismi dei consigli di sorveglianza tedeschi, a meno di non regalare parte del patrimonio azionario aziendale ai lavoratori. Più probabilmente, l’idea è un ballon d’essai lanciato a sostegno della prima parte della proposta. Renzi, da amministratore ha mostrato un’impostazione generale antitetica alla Fiom. Renzi è più popolare nell’insieme della società che nel suo partito, che alla fine l’ha votato come unico capace di promettere vittoria.

Anche Landini e la Fiom sono molto più popolari nei media e nella società che nei luoghi di lavoro, dove in 10 anni hanno perso quasi 9mila iscritti; si sono fatti superare dalla somma di Fim e Uilm che l’hanno surclassata massicciamente all’Ilva di Taranto come a Pomigliano d’Arco. Fiom, che non è più per antonomasia il metalmeccanico; né l’iscritto Cgil tipo, dove il 50% attivo è del terziario; né il lavoratore (la Fiom ne rappresenta il 2%), è comunque sempre in televisione. Si capisce. Per il mondo mediatico di alto profilo, la Fiom non è solo la storia dell’ascesa sindacale italiana, ma è anche il modo di coniugare la contestazione al sistema e la sinistra più tradizionale.

Esiste un comune tratto politicamente scorretto non solo tra Renzi e Landini, ma anche con Berlusconi e Grillo. Solo i primi due garantiscono però che il no correct politico anti-progressismo globale non esca pericolosamente dall’alveo della storia culturale della sinistra. Se Landini contesterà il terzo accordo in tre anni sulla rappresentanza, che peraltro mette tutti i sindacati sullo stesso piano, senza più i privilegi del 30%, metterà in crisi il volto moderato della Cgil. Per Renzi non sarà che un favore, ma d’altronde nessuno dei due è socialdemocratico.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:14