
Marco Marin, 50enne, medico come il sindaco di Roma Ignazio Marino, è stato negli anni Novanta uno schermitore campione del mondo. Nel decennio seguente si è cimentato in politica a Padova, prima da assessore esterno e poi da consigliere (il più votato del centrodestra), fino alla sconfitta del 2009 nel tentativo di diventare sindaco. Da febbraio è senatore, in genere sempre presente, mai in missione, con una condotta senza infamia e senz’onore.
Ha avuto anche la ventura di fare un congresso del Pdl cittadino, vincendolo contro l’agguerrito Cavatton, di origini postfasciste, il più giovane consigliere comunale da quando venne eletto la prima volta nel ’99. Sandra Savino, 53 anni, diplomata commerciale, ha cominciato nel 2006 da assessore esterno del sindaco triestino Di Piazza, proseguito nel 2008 da assessore esterno regionale friulano di Tondo, finché non è capolista per la Camera.
Senza bisogno di un solo santino elettorale, almeno di quello stampato. Alla terza legislatura, il geometra Claudio Fazzone, 52enne, ras di Fondi, salito regionalmente in epoca Storace, ha raggiunto la ribalta delle cronache per gli scontri intestini a Latina il cui elettorato, in via di principio, di stragrande maggioranza di destra, aveva finito per dividersi in tre. È invece diplomato al liceo classico il 45enne Parisi che tra radio, tv e il giornale della Toscana, sembra un po’ un nuovo Conti, che in effetti prima di diventare il fantozziano presentatore Rai, fece tanta gavetta nelle piccole emittenti toscane. Il ragionier Biasotti è più famoso, fa a gara di tristezza con Burlando nella triste Liguria. Ed ha già perso due volte la sfida regionale; dovrebbe fare in tempo a fare il tris. Certo, fa 70 anni nel 2018, ma non c’è due senza tre. Della Gelmini c’è poco da dire. Un titolo universitario ce l’ha.
Non si è mai capito cosa l’abbia proiettata tanto in alto. Nemmeno le famose malignità sulla bellezza hanno un fondamento, almeno finché si abbiano occhi per guardare la realtà. Gelmini; Biasotti, Parisi, Savino, Fazzone, Marin sono dunque i coordinatori regionali di Forza Italia per Lombardia, Liguria, Toscana, Friuli, Lazio e Veneto. Di Lattanzi, posto a capo della Valle d’Aosta si può omettere di dire alcunché. Si tratta di una regione, nata per imposizione dei trattati di pace, quando si usavano tali mezzi per dare modo ai Paesi vincitori, nel caso specifico la Francia, di intervenire nei fatti interni dei Paesi vinti. Come è noto, oggi si usano altri mezzi. Un partito politico serio, a prescindere di destra o sinistra, dovrebbe chiederne lo scioglimento. Non è difficile capire il criterio con cui Berlusconi li ha scelti, a parte lo scarso curriculum scolastico.
La fedeltà, oggi, dopo tante scissioni, tarantelle e confusioni ideologiche interne, è per tutti i capipartito condicio sine qua non. Specialmente per il Cavaliere, che all’avvicinarsi del voto diverrà un sorvegliato speciale e che dovrà giocoforza affidarsi alla più stretta parentela e fidelità. La fedeltà si manifesta con il tempo e con l’ubbidienza. Malgrado il maquillage photoshoppato, la squadra è attempata. Non sia mai venga lasciata sola a decidere. Fortunatamente, il capo lo farà, da front-man o nel backstage, Verdini che senza fantasia all’occorrenza mette tutti in parata. I coordinatori dovranno cervelloticamente nominarne altri tre; a qual fine non è chiaro, visto che malgrado i battage dei primi momenti, nessuno in casa berlusconiana ha veramente urgenza e bisogno di aprire sezioni o scrivere programmi.
Basta l’infaticabile Brunetta, che peraltro ha i titoli anche per tutti gli altri. Se non ci saranno elezioni a breve, cioè a maggio, i coordinatori verranno presto scordati, nell’assenza di segni di vita. Nel caso ci fossero, metà della campagna verterà sul martirologio del Cavaliere esodato ed un quarto sulle colpe e l’odio da rovesciare sugli ex amici che hanno preferito restare ministri. Per il resto, in un modo o nell’altro, dovrà fare tutto Berlusconi che in pubblicità come in propaganda puntuale sa dare il suo meglio. Difficile che vengano candidati in Europa, data la penuria di fedelissimi in giro. Insomma, non sono nomine veramente importanti. Descrivono però il destino futuro. Il centrodestra italiano, carico di tradizioni mai amate, di spinte uguali e contrarie al suo interno, è un’enorme ameba che non comprende se stesso. È venuto su così, nell’irrompere del suo creatore Silvio ed in parallelo con l’altra ameba, di falsa sinistra, che a suo carico ha purtroppo la completa conoscenza delle sue radici malate e fradicie.
Se Berlusconi lasciasse perdere, lo spazio politico, più che moderato, andreottiano, andrebbe alla deriva verso Masanielli, imitatori di Grillo, spezzettandosi ancora di più di quanto già non faccia. Non lasciando perdere e blindando le cose a modo suo, ritarda nel tempo il caos. La scommessa di Napolitano e di parte del Pd era di evitare il voto fino al 2018, così da chiuderla per sempre con Arcore. Renzi scalpita e come già Veltroni e D’Alema sembra voler offrire una via di fuga a Berlusconi. In quest’ultimo caso, con il voto, c’è solo la sicurezza dello scossone delle coronarie quirinalizie e la scomparsa elettorale del gruppo alfaniano. Poi potrebbe succedere di tutto, dalla conferma del Pd alla vittoria di Grillo, come al ritorno dall’Elba del Cavaliere. Come si vede, su tre possibilità, ben due vedrebbero scatenarsi almeno tre guerre contro l’Italia, finanziaria, europea e americana.
In questo contesto, un Berlusconi diverso da quello che è, e quindi inesistente, avrebbe potuto lavorare per il futuro, per quanto l’opzione con la scelta del nome del nuovo partito e dei club sia stata subito cassata. Avrebbe potuto nominare coordinatori con il mandato di promuovere i congressi. Li avrebbe potuti scegliere giovani, almeno sotto i 50 anni, almeno laureati, dato che oggi una laurea vale il diploma di ieri e che il diploma di ieri vale oggi le elementari. Né vale dirli imprenditori se fanno politica, poiché il politico o ha un’impresa gestita da altri, oppure ha ricevuto, da falso businessman, un suo mercato captive, grazie alla politica.
Avrebbe potuto evitare di scegliere cavalli già sconfitti o che mai si sono messi in corsa. Avrebbe potuto venire incontro a tante idee mai confessate dal popolo destro ed escludere le donne. Avrebbe potuto offrire alla migliore classe dirigente, lombarda e veneta, la gestione anche degli altri territori. Avrebbe scelto un esponente di Roma, evitando di rifuggire nello spopolato Lazio.
Avrebbe, avrebbe, ma non ha, né poteva. Ed è un peccato perché, nella sconoscenza premeditata di media e accademia, le idee portanti di Berlusconi, in gran parte ereditate dai laici dei partiti precedenti, si sono imposte largamente al punto da essere divenute base di programma per tutti. Ai nomi che avrebbero potuto fare meglio, non solo per l’immanente voto, sarebbe toccato andare oltre, infrangendo i falsi miti su cui è nata la Repubblica. Il che prima o poi verrà fatto.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:04