L’intrigo dei marò imbarazza l’Italia

La via per l’assoluzione dei due marò detenuti in India è ormai bloccata dal cosiddetto “tappo di gomma istituzionale” (almeno secondo fonti referenziate). Poi gli ultimi fatti di cronaca non fanno certo salire il gradimento, nell’opinione pubblica mondiale, per la giustizia indiana: per decenni favoleggiata come una sorta di propaggine gandhiana, oggi si rivela al rimorchio politico d’esecuzioni sommarie, per nulla a tutela dei testimoni (i casi di violenza sulle adolescenti ne sono triste esempio), accusata di corruttele di vario tipo e per nulla aperta al giusto processo.

Il 4 dicembre 2013 L’Opinione pubblicava un articolo dal titolo “Condanna dei marò, l’omissione italiana”: il contenuto segnalava ai lettori la pubblicazione su “youtube” d’un video realizzato da un ufficiale della Marina italiana, il “capitano di fregata” Diego Abbo, persona molto stimata, ritenuta da molti fin troppo precisa e diligente. Il video contiene un’analisi approfondita, inoppugnabile, su come s’è svolta la vicenda dell’Enrica Lexie. Abbo dimostra che per i colpi sparati dai Marò s’è avuto un caso di “spiattellamento”, ossia di rimbalzo sull’acqua dei proiettili. Lo studio del comandante Abbo era già stato, preventivamente e formalmente, notificato ai suoi superiori: era stato doverosamente osservato il “naturale iter gerarchico”, mediante richiesta di colloquio sia allo Stato Maggiore della Marina Militare che direttamente al ministro della Difesa.

Notifiche e richieste giunte sui tavoli dei vertici militari e politici già dallo scorso settembre. Abbo prospettava ai propri superiori e al ministro della Difesa una concreta opportunità per risolvere la vicenda dei marò: permettendo di mantenere alto l’onore dell’Italia, ma basandosi su fatti incontrovertibili. Logica avrebbe voluto che il comandante Abbo venisse sentito dai superiori e dal ministro della Difesa, soprattutto da una commissione parlamentare facilmente costituibile. Tutti i vertici istituzionali dovrebbero dimostrarsi proiettati alla soluzione della vertenza, e senza lasciare nulla d’intentato.

Ma siamo in Italia, e qualcuno ritiene politicamente più opportuno i marò rimangano detenuti in India. Negligenza o furbizia? L’inerzia istituzionale spinge molti ad invocare l’unica autorità che ha dimostrato attenzione alla vicenda, ovvero la Presidenza della Repubblica. Ma potrebbe mai l’Italia riguadagnare in un sol colpo quel prestigio internazionale venuto meno con la gestione dilettantesca di varie vertenze internazionali? Non dimentichiamo che la vicenda dei marò capitava appena due mesi dopo l’uccisione dei tecnici italiani da parte dei ribelli del Delta del Niger? Nel caso dell’incidente nigeriano ci rivolgemmo agli inglesi che, di tutta risposta, ci dissero di non voler più intermediare per gli italiani. Ecco perché molti vedono la perizia Abbo come una risorsa, da utilizzare anche con una certa urgenza: perché basata su riscontri scientifici e perché con gli indiani non c’è tempo da perdere.

Attualmente la linea difensiva italiana si basa sul fatto che, il barchino dei pirati che ha attaccato l’Enrica Lexie fosse altra cosa dal peschereccio St. Anthony. Una valutazione risibile, ma strombazzata dai media: tra l’altro contrasta palesemente con le testimonianze e col rapporto di Massimiliano La Torre, che fa fede in qualsiasi tribunale e sino a querela per falso. La difesa indica le posizioni della Lexie e del St. Antony non compatibili con quanto formalizzato nel rapporto di La Torre (team leader dell’NMP, Nucleo Militare di Protezione) calpestando anche ogni principio della navigazione. Certo la pressione mediatica ha sedotto l’opinione pubblica. Poi sono state amplificate le opinioni di troppi periti delle procure italiane, tutti pareri non rispondenti al vero: hanno parlato di tracciati radar scomparsi, accusando (grande prova di raffinata diplomazia) la procura indiana d’aver manipolato le prove balistiche.

Non avendo concrete argomentazioni, sono arrivati ad accusare il governo indiano d’aver appositamente manipolato la morte dei due pescatori, avvenuta a parer loro in altre acque. Le tesi traballanti poggiano sulle dichiarazioni a caldo del comandante del St. Anthony, che forniva un orario dell’evento che poi risulterà erroneo: poi c’è la questione del “rigor mortis” valutato da esperti e opinionisti in base ad un filmato della CNN. Compici le tivù, una congerie d’argomentazioni discordanti finiscono per ingarbugliare ancor più la vicenda. Necessita che la difesa dei marò e lo stesso Parlamento ascoltino il comandante Abbo: la sua perizia contribuirebbe a sminare lo scenario processuale dalle fumosità pregresse, da discutibili asserzioni, aprendo la strada a una valida difesa. Le tesi del comandante possono essere utilizzate nell’arena internazionale, che fa capo alla “sicurezza marittima”, senza far sfigurare l’Italia.

Doverose alcune premesse sia sullo sconosciuto ufficiale di Marina che su chi gli ha commissionato l’incarico di tutela dei marò. Il “capitano di fregata” Diego Abbo è un normale ufficiale di Marina, però le sue credenziali sono tante. Ha operato in scenari terrestri internazionali molto caldi (ex Yugoslavia , medio oriente, paesi dell’est) e in situazioni operative sul mare nazionali e non (controllo immigrazione, embarghi di varia natura, missioni di pace), raggiungendo così il ruolo di esperto in conflitti navali asimmetrici (come è appunto il contrasto alla pirateria nelle zone ad alto rischio). In virtù della sua esperienza come comandante del COMOS (Comando motosiluranti) ha sviluppato uno studio “sull’impiego insidioso dei barchini trasportati da navi madre”: argomento poi evidenziato dalla Agenzia Marittima Internazionale (IMO) come “dottrina operativa degli attacchi dei pirati”.

Ci dicono il comandante Abbo sia consulente di “intelligence e security” per vari gruppi aziendali, corporate ed altri organismi, con prevalenza nei settori della sicurezza marittima e cibernetica. L’efficacia delle tesi elaborate da Abbo è suffragata dalla valutazione di numerose criticità nelle misure di “contrasto alla pirateria”. Tra queste ultime, il rischio di “danno collaterale” (se così può essere definito l’incidente dei marò, e solo per rispettare le regole di ingaggio) applicando le attuali regole antipirateria. O il rischio da giurisdizione, che dovrebbe prevedere un adattamento mirato del sistema giudiziario internazionale, che afferisce alla convenzione di Montego Bay per le zone di alto rischio di pirateria. Le tesi argomentate da Abbo produrrebbero certo effetti benefici al prestigio internazionale dell’Italia, oltre che alla sorte dei due fucilieri (non colpevoli ma trattenuti).

Utilizzare questa perizia, apparsa anche su “youtube”, fornirebbe senza dubbio una migliore soluzione giudiziale rispetto a quanto si sta prospettando. Ma il mistero rimane tutto. E cioè perché il comandante Abbo è stato costretto ad uscire allo scoperto, postando su “youtube” la perizia? Per quali motivi le autorità ministeriali insistono nel non volerlo ascoltare. Magari i motivi sono anche validi, e sappiamo come un contratto commerciale possa passare anche sulla testa del prestigio dell’Italia e dell’onore e, soprattutto, della libertà per i marò.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:04