Trasporto locale,   lo “scarica-Renzi”

Ritorna la voglia di privatizzare qualcosa. Il governo del Partito Democratico tentenna, bloccato da ogni parte, ma capisce l’ineludibilità della richiesta sociale di investimenti o di calo fiscale in una deriva che sembra non avere fine. Come ricorda una Confindustria sanculotte, il calo del benessere materiale porta all’imbarbarimento della democrazia. Bisogna trovare risorse. Gli stessi che soffiarono sul fuoco contro la norma Ronchi-Fitto, che interveniva nella selvaggia matassa delle aziende possedute dagli enti locali, tornano ai suoi stessi concetti, a dimostrazione di disonestà intellettuale e strumentalità. Ad inizio crisi c’erano circa 240mila dipendenti in 5mila società di capitali controllate dagli enti locali, di cui 711 totalmente possedute (431 municipalizzate con 142.777 dipendenti, 19 provinciali con 3.784 dipendenti, 34 regionali con 15.764 dipendenti, 227 miste con 77.208 dipendenti).

Ogni Comune in media era presente in otto società; un Comune medio in 17 società. Mettere le mani sulla materia è, in tempo di crisi, più ustionante di prima. Centotrentasettemila dipendenti che si concentrano nelle 380 società Confservizi - gestori dei servizi più importanti, quali trasporto locale, rifiuti, acqua ed energia - non ne vogliono sapere di efficienza, efficacia, svincolo dall’ente pubblico. Non hanno torto, perché in passato queste operazioni si sono concluse senza fornire servizi all’altezza, con debiti invariati, mandando solo gente a casa ad aggravare la crescente povertà. Lo sciopero, arma spuntata in tanti settori, è sempre più impugnato da un numero crescente di sigle nelle 2mila società del trasporto pubblico locale, 30 miliardi di fatturato, con una media di 150 dipendenti ciascuna.

La materialità fisica del servizio può mandare in tilt le realtà urbane, contribuendo con poco ad un caos, già organizzato strutturalmente, grazie all’assenza di utilizzo della tecnologia digitale, alla mancanza di regole su manifestazioni e occupazioni e all’aumentato pendolarismo, risultato di una gestione generale anacronistica. A Genova, l’intenzione di privatizzare il trasporto locale dell’Amt che perde il doppio di quanto incassa, nella timidezza dei sindacati maggiori, ha prodotto l’esplosione rabbiosa del consenso per quelli autonomi. A Roma, il continuo ricorso agli scioperi di metro e bus ne ha alla fine fatto fallire un gran numero, dato che questo tipo di protesta viene pagato subito e salato dal lavoratore. A Firenze, nel controllo monopolistico del potere del Pd, si è messa in sordina la protesta per la privatizzazione, la chiusura prevista per il 2014 e il futuro spacchettamento in tre dell’Ataf, l’azienda di trasporto pubblico locale. C’era stato un referendum nel 2011 col quale i fiorentini si erano detti contrari alla privatizzazione dell’Ataf, ma Renzi e Pd ci sono passati sopra con le scarpe chiodate.

La relativa gara internazionale, vinta dal consorzio di Fs, altre aziende pubbliche, private e cooperative, non ha visto incredibilmente alcun ricorso, e nessuna protesta incendiaria malgrado il peggioramento delle condizioni di lavoro: 5mila euro in meno di salario annuo, dieci scioperi dei lavoratori tra il 2011 e il 2012, non una clausola sociale a difesa di occupazione e normativa. Alla fine un dipendente su quattro è risultato in esubero, mandato in altre regioni, dimissionato con incentivi oppure finito in mobilità. La Cgil ha morso il freno e fatto mordere il freno all’intero fronte sindacale. Renzi ha potuto gongolare, immaginando che “se si mettessero in mobilità il 25% dei dipendenti del comparto pubblico (non licenziandoli, quindi), molti problemi sarebbero risolti”. La prospettiva immaginata sarebbe quella, se applicata a tutta la PA, di un milione di dipendenti pubblici con mille euro al mese fino alla pensione pagati dall’Inps, cioè dalle tasse. Può essere considerata un’idea positiva da molti, ma non c’è dubbio che questa via in realtà deprime il mercato, uccide la società e per di più aumenta le tasse.

Il neosegretario del Pd ha lasciato il lavoro sporco sui bus al patron di Fs, l’ex Cgil Moretti, che, grazie al servizio ferroviario sempre peggiore e sempre più costoso, non ha avuto problemi di ricapitalizzazione nell’azienda gigliata. Per governare così, in una sorta di dirigismo unanimistico, ci vuole un fronte compatto di allineati soggetti pubblici e privati che non pongano problemi. È ben difficile esportare questo modello tosco-emiliano a livello nazionale. La via che non si vuole intraprendere è quella di un ripensamento della grande mobilità urbana. Metà di questa è dovuta a motivazioni inutili e potrebbe essere del tutto eliminata con la coscienza e valorizzazione del lavoro mobile, evoluzione dell’ormai anacronistico telelavoro. L’altra metà è necessità vitale di spostamento ma anche espressione di esigenze diverse. Ogni settore merceologico ha diversi livelli quantici di prezzo, a seconda della qualità e cura assicurate. Il trasporto pubblico dovrebbe fornire diverse soluzioni, anche on-demand, per diversi livelli di prezzo, così da concentrare i controlli solo dove l’importo, anche quintuplicato e decuplicato, ne faccia valere la pena.

Dovrebbe garantire la gratuità sulle tratte più lunghe e collegate a specifiche destinazioni di interesse generale; servizi di guida e orientamento sempre più richiesti dal turismo culturale; il pagamento all’accesso nei mezzi. Dovrebbe pretendere di più dai suoi lavoratori e pagarli molto meglio. Dovrebbe cassare la normativa sul mobility management e imporre abbonamenti alle grandi aziende le cui scelte aggravano la mobilità. Per allargare l’offerta alle richieste e fare dei mezzi pubblici, all’occorrenza taxi collettivi o grandi pullman turistici, il trasporto locale dovrebbe poter imporre la sua corretta velocità commerciale nei centri urbani. Non si tratta di allargare i divieti per il traffico privato, già giunti al massimo, ma di aumentare in modo esponenziale il numero e la varietà delle vetture. Queste risultano sempre insufficienti e, quando nuove, disegnate con criteri cervellotici che migliorano l’estetica ma non la vivibilità dei mezzi. Gli abbonati, non altri, dovrebbero potersi pronunciare sui modelli, il numero dei posti a sedere e la fruibilità. Il trasporto pubblico non deve essere una castagna da cui non scottarsi, non deve essere vincolo e peso nei trasferimenti pubblici agli enti locali, ma un occasione di servizio, di ricavo e di profitto, come dimostra l’esempio di Bergamo.

La fine della grande Iri nazionale ne ha fatte nascere tante locali, pulviscolo di partite di giro economico-politiche, senza strategia globale di crescita per nanismo strutturale. Un’unica realtà aziendale di trasporto locale, necessario contrappeso alle oligarchiche “Frecce ferroviarie” produrrebbe semplificazione amministrativa e la fine dell’inutile dibattito sulla governance, concetto valido per Borsa e azionisti ma non per la managerialità. Potrebbe essere costituita da Cdp con un mantenimento di proprietà dei Comuni del 30% delle municipalizzate ed un introito considerevole per le casse locali. Oggi come ieri ci sono utilities che perdono sistematicamente e altre che rivaleggiano con i privati anche all’estero. Non a caso, tre quinti di esse sono situate al nord e un quinto a Roma. Senza un’Azienda di trasporto locale italiana non ci saranno mai applicazioni né di best practice né di soluzioni innovative, ma solo lo “scarica-Renzi”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:45