Cuffaro, se il Sistema va a tutelare la

Non c’è nulla da fare. Aveva proprio ragione Leonardo Sciascia quando, circa trent’anni or sono, lamentava che in Italia ciò che manca è il senso del diritto e perciò, in definitiva, quello della giustizia. Questa triste affermazione va oggi ribadita davanti alla decisione con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato la domanda con la quale l’ex presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, aveva chiesto di poter fruire del beneficio dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Infatti, la motivazione della decisione del Tribunale fa leva su una presunta – e io direi possibilissima – scarsa collaborazione di Cuffaro in relazione al reato di favoreggiamento con l’aggravante mafiosa in forza del quale egli è stato condannato. In altre parole, Cuffaro avrebbe dato prova di non aver a sufficienza aiutato le investigazioni a carico della mafia e perciò non merita il beneficio richiesto.

Si capisce perciò che il Tribunale parte dalla constatazione che Cuffaro sia colpevole e che perciò, essendo a conoscenza di fatti e misfatti della mafia, preferisca tacere anziché rivelarli. E tuttavia, si impongono alcune considerazioni critiche. Innanzitutto, occorre notare che il comportamento intramurario di Cuffaro è stato esemplare. Non solo egli ha imparato autenticamente cosa sia la sofferenza (materiale, morale, affettiva, psicologica...), restandone forgiato come il ferro col fuoco, ma ha saputo intraprendere attività nuove e gratificanti come lo studio universitario della giurisprudenza, parecchi esami della quale ha già superato, diventando perciò anche un punto di riferimento per diversi altri detenuti da consigliare secondo diritto ed in buona coscienza: alla fine, perciò, ha perfino fornito alimento al cammino di maturazione umana e civile dei suoi compagni di detenzione.

In secondo luogo, egli era già munito di un lavoro all’esterno del carcere, presso una nota cooperativa che era disponibilissima a usarne la collaborazione senza alcun problema. Questi elementi, considerati in quanto tali ed insieme all’evidente assenza di rapporti disciplinari a carico, sarebbero stati sufficienti per concedere l’affidamento in prova a qualunque altro detenuto ne avesse fatto richiesta. Il fatto è che il Tribunale si è impuntato sulla scarsa collaborazione nei confronti dell’investigazione. Evidentemente, i giudici ritengono che un colpevole, quale Cuffaro, non possa che collaborare per dimostrare la propria maturazione. E se invece Cuffaro fosse innocente? Domanda inquietante, se non terribile. Infatti, lo Stato di diritto si distingue essenzialmente da quello totalitario per il semplice motivo che mette nel conto di poter aver torto, essendo perciò pronto a riconoscere l’altrui diritto.

E tanto più ove si tratti, come in questo caso, della sfera morale e non strettamente giuridica, quella cioè capace di indurre taluno a collaborare con l’organo inquirente. Se allora lo Stato – in quanto Stato di diritto – fosse pronto a riconoscere davvero di poter essere in errore e cioè che Cuffaro potrebbe essere innocente a discapito della condanna definitiva riportata, avrebbe già concesso il beneficio dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Ritenendo diversamente, ne verrebbe che il vero colpevole sarebbe più tutelato del vero innocente. Mentre infatti il colpevole potrebbe lucrare ogni beneficio, collaborando e mettendo a frutto le notizie apprese durante la propria carriera criminale, non così l’innocente: questi non ha nulla da dire, perché non sa nulla, nulla avendo fatto di illecito. E allora? È inquietante vivere in un sistema che tutela più la colpa che l’innocenza.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 10:41